Benvenuto caro lettore ad un altro appuntamento cinematografico della rubrica Lo Sguardo Indiscreto della Settima Arte.
Il cinema contemporaneo non ha finito di far vedere la sua crisi che non consiste soltanto nella quantificazione degli incassi, ma anche in una questione strutturale che interessa sia il visibile che la narrazione.
“Interstellar” di Christopher Nolan non è collocabile su un netto livello di riflessione come lo sono “Contact” (rappresentazione del limite del filmabile), “Psyco” di Gus Van Sant (rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato) e “Matrix” (rappresentazione del limite del virtuale). Li incorpora e ne è debitore (specie di “2001 Odissea nello Spazio”), in maniera tale da passare come limite ultimo della narrazione odierna in tutte le sue tecniche e testamento di metamorfosi di scrittura.
Ci sono dei buchi in questa sceneggiatura che non sono solo neri e ci sono anche molteplici formule narratologiche che fuse fra loro costituiscono una leva per sradicare modelli consolidati che producono film fotocopia.
Perdonando i primi, le seconde fanno sorridere Seymour Chatman i cui libri di semiotica e teoria della narrativa applicata sono stati sicuramente letti dal regista di “Inception” e suo fratello. Già sperimentato in questa pellicola, il tempo dell’intreccio (insieme degli eventi) è superiore al tempo della fabula (insieme degli elementi di una storia nel loro ordine cronologico) anche in “Interstellar”.
La differenza, qui, non è data da più livelli temporali ma da uno scompaginamento finale delle due componenti citate, in un reticolato spaziale senza gravità, dato da due ellissi narrative di grandezza differente che cominciano rispettivamente con gli abbandoni e gli incontri fra padre e figlia nello spazio-tempo globale del film. Come in “Inception” i personaggi sono “ovunque e ora”, come in “Inception” l’orologio è il totem iniziatico della percezione cognitiva della relatività del tempo. Davvero qualcosa di nuovo per la scrittura cinematografica, soprattutto in termini di sfida per il futuro.
Alle sceneggiature si aprono diversi scenari, alle immagini sono ancora preclusi. Allo stesso modo di Zemeckis con “Contact”, Nolan non riesce a mettere in scena l’ignoto se non con il già visto ma rielaborato. Entrambi film sull’altrove, non riescono ad andare oltre al già conosciuto. Sia l’occhio che vede, che l’occhio che immagina sono vuoti. Anche “Interstellar” è un film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. I suoi segreti sono più nascosti nei rumori o nelle sensazioni tattili dei personaggi che nelle strepitose visioni del Cosmo; dal ticchettio dell’orologio alla stretta di mano fantasma, alla colonna sonora. Questa è spesso intervallata dal silenzio dello Spazio profondo, molto simile al suono dell’armonica dei film di Sergio Leone. Il suono del destino, il rumore dell’esplorazione.
Un film, come molti contemporanei, più uditivo e tattile che visivo.
Ecco, probabilmente la sfida che il cinema deve affrontare: colmare lo iato fra udito-tatto e visivo per ridare all’occhio e alle immagini la potenza di significazione di un tempo.
Cioè anche, ridare la capacità al cinema di far vedere quello che non pensiamo già.
Ma questo è possibile solo con l’esplorazione.