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" CRIME STORY - Lo stupro " di Alessandro Volpi

Subire un sopruso, una violenza tra le più odiose e deprecabili e non riuscire a ottenere giustizia è quasi come subirla due volte.

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BIOGRAFIA AUTORE

Alessandro Volpi è nato il 24 Maggio 1958 a Paderno Dugnano (Mi) dove tuttora risiede. Ha alle spalle una vita molto movimentata e diverse esperienze detentive; durante una di queste, nel 1998, ha frequentato un corso di poesia nella Casa Circondariale di Paola (CS) e, nel 2001, ha partecipato ad alcuni premi letterari ottenendo numerosi riconoscimenti. Col pensiero rivolto alle nipotine scrive fiabe e racconti per bambini e apre il blog personale alessandrovolpiscrittore.space.live.com dove pubblica alcuni capitoli di questo romanzo ricevendone entusiastiche recensioni; nel 2007 vince il primo premio al concorso letterario del Rotary Club di Torino con “Simon, il cavalluccio marino”. 

PRESENTAZIONE

Caro Lettore,

subire un sopruso, una violenza tra le più odiose e deprecabili e non riuscire a ottenere giustizia è quasi come subirla due volte. Così si sente Carol, dopo che il suo aggressore riesce a farla franca; allo stesso modo reagisce Giovanni, suo padre, schiacciato dal senso di colpa per non essere riuscito a proteggere sua figlia.

E allora, quando soldi e notorietà sembrano valere di più del comune senso di giustizia, come ribellarsi? È in questo momento che entra in scena "il Lupo", esponente della malavita milanese, che prende a cuore la faccenda e promette a Giovanni una rapida soluzione, ricorrendo al codice d’onore là dove il codice della legge ha fallito. E gli avvenimenti sembrano prendere tutt’altra strada... 

Buona lettura...

CRIME STORY - LO STUPRO

I° capitolo 

È quasi mezzanotte in quel paese della valle Padana; Carol ha passato la serata con gli amici nella birreria del centro dove si ritrovano tutti i fine settimana.
Hanno bevuto, chiacchierato, riso e giocato per tutto il tempo e lei, ricordando alcuni di quei momenti, si sorprende a riderne di nuovo mentre cammina per far rientro a casa.
Carol ha diciott'anni e tutta la voglia di vivere che è propria della sua età; ha un corpo aggraziato ed un viso dolce e gentile, porta i capelli a caschetto perché slanciano la figura e li tinge di rosso vivo per compensare il pallore delle gote velate da un leggerissimo trucco; ha gli occhi di un nero affascinante e ciglia lunghe e ben curate.
Che sia bella glielo dicono tutti e lei pone una cura particolare all’abbigliamento per essere ancora più sexy ed attraente.
Ama la vita e tutto quel che la riguarda; è felice della casa in cui vive con i suoi genitori, che ama e che non le fanno mancare amore ed attenzioni, nonostante gli incessanti impegni lavorativi.
 

È felice di come la sua vita si è svolta fino ad ora, della sua infanzia, dell’adolescenza, della pubertà, dei primi amori e soprattutto del suo grande amore, Gino, conosciuto sui banchi di scuola, in quel Liceo Classico Savini che frequenta con assiduità e con risultati non proprio esaltanti ma, tutto sommato, positivi.
Nel percorrere strade e stradine poco illuminate Carol si sente serena e quasi protetta dalla notte e dalla tranquillità del suo paese.
In quelle poche centinaia di metri che separano l'Angie's Bar da casa sua la mente vaga con la velocità della luce tra mille momenti passati nella settimana appena trascorsa.
Poi qualcosa compare davanti alla sua bocca; vi si comprime contro tappandole anche il naso ed impedendole di respirare.
La mente s’appanna e, disperatamente, ricerca una spiegazione a quell'odore forte ed impregnante, a quell'azione improvvisa ed inattesa… al buio più totale.

* * *

Carol riapre gli occhi piano piano:
Cosa è successo? Dove sono? Perché? Le mani sono bloccate da qualcosa; muove la testa per guardare cosa le trattiene e le vede legate con pezzi di straccio ad una ringhiera di ferro.
Si guarda intorno, è in una stanza poco illuminata ma ben arredata, non c'è nessuno e lei è sdraiata su di un letto in ferro battuto; ecco dove sono legate le sue mani, alla testata di un letto.
Ma perché? Si domanda impaurita. Cosa ci faccio qui? Come ci sono arrivata?
Ha qualcosa sulla bocca, qualcosa che gliela tiene sigillata, contorce il viso in una smorfia per guardarsi le labbra e nota del nastro adesivo.
Si sforza di gridare ottenendo solo un flebile rantolo e il terrore la assale, si agita per liberarsi in qualche modo e si rende conto che anche le gambe sono legate, che un laccio le cinge le caviglie.
Lo stress le fa perdere nuovamente conoscenza.
 

Al risveglio l'accompagna nuovamente quello spiacevole torpore provato al primo impatto con quel luogo sconosciuto; si guarda nuovamente intorno alla ricerca di qualcosa di rassicurante, ma niente riesce ad alleviare la paura che le attanaglia la gola.
È vestita e questo pare rassicurarla per un attimo, indossa ancora i jeans ben abbottonati e la maglietta è a posto, gli sono stati tolti solo il giubbino e la borsetta.
Si guarda intorno, nella borsetta c'è il telefonino…
Già, il telefonino, se solo riuscisse ad afferrarlo potrebbe chiedere aiuto, potrebbe avvisare suo padre che la verrebbe a liberare in un battibaleno; poi si rende conto di non potere muovere nemmeno un dito e lo sconforto, questa volta, sfocia in uno straziante singhiozzare.
Ma quanto tempo è passato? Pensa tra sé. Perché mi trovo qui? Cosa mi succederà adesso? Ma chi può essere stato? Vorranno farmi del male? Papà, mamma, dove siete? Perché non venite a liberarmi?
Ora Carol piange disperata, implorando gli Angeli ed il Cielo intero di salvarla, di riportarla in volo a casa sua, magari a prendersi i rimproveri della madre perché è rientrata tardi, o a vedere il suo papà tenerle il broncio, preoccupato per la sua bravata.
Dove siete tutti? Perché nessuno mi aiuta? Aiutatemi, vi prego, ho paura!
Mentre pensa a tutte queste cose chiude gli occhi e si assopisce.
Un rumore la sveglia all'improvviso, spalanca gli occhi per cercare di capire cosa stia succedendo; la luce nella stanza è troppo bassa ma comincia a distinguere qualcosa… un'ombra!
 

C'è qualcuno in quel maledetto buco, forse si sono accorti di avere sbagliato persona, magari volevano rapire qualcuna ricca e famosa e, per errore, hanno preso lei.
Sì, è sicura, adesso la lasceranno andare; le toglieranno il bavaglio e lei si affretterà a spiegar loro di stare tranquilli, che lei non ha visto niente e che non dirà niente, assolutamente niente di niente.
Gli spiegherà che possono fidarsi di lei, che lei li perdona e che, in fondo, non gliene frega niente di quello che è successo; che lei vuole solo tornare a casa sua, tra i suoi cari, per farsi una doccia bollente e dimenticare tutto.
L'uomo ha il volto trasfigurato da una calza da donna, è ben piazzato e vestito di scuro, ha anche in mano delle forbici e questa cosa rafforza le speranze di Carol:
Adesso taglierà le corde che mi tengono bloccata, mi spiegherà che si è trattato di uno sbaglio e mi lascerà andare.
L'uomo infatti taglia i legacci alle caviglie della ragazza che muove lentamente le gambe a congiungersi tra loro, provando subito uno strano benessere dall'essere riuscita a spostarle dalla posizione divaricata in cui erano prima.
I suoi occhi scintillano e lo sguardo già ringrazia lo sconosciuto per la fine di quella tragica esperienza.
 

Adesso mi libera le mani e mi toglie il nastro dalla bocca, pensa tra sé, e io devo parlare con voce calma e pacata per fargli capire che può stare tranquillo e che può fidarsi di me. Ma quanto ci mette? Perché non si sbriga a sciogliermi? Voglio andare a casa!
La mano dell’uomo che sfiora le sue gambe le dà un senso di fastidio; è partita dal polpaccio ed ora risale su, dall'esterno, per tutta la coscia, fino a raggiungere i fianchi.
Carol è stupita da quel gesto che, nella sua mente, non si presta a spiegazioni.
Alza la testa, per quel poco che riesce, per meglio rendersi conto di quanto sta accadendo; l'uomo ha posato la forbice, e la mano che posava sui suoi fianchi si sta ora dirigendo verso il ventre; ora va verso il bottone alla cintura dei jeans e lo sfila dall'asola.
In un attimo i pantaloni sono sbottonati e la zip è abbassata, quella mano grande e sconosciuta si infila tra i pantaloni e le mutandine e, per Carol, è l'INFERNO.
Mi vuole violentare! Questo bastardo non è qui per liberarmi, mi farà del male! Non può farlo, non deve farlo. Non è giusto.
Comincia ad agitarsi confusamente con ogni parte del corpo che riesce a muovere; lanciando il bacino in alto e ruotandolo di scatto sente la mano dell'uomo scivolare fuori dalla pericolosa posizione precedente, ora può muovere le gambe e cercare di prendere a calci il suo aggressore; ci riesce una, due volte, e l'uomo è sorpreso dalla sua reazione.

Carol strattona con forza le braccia nel tentativo di liberarsi le mani, ma il disperato gesto le procura solo un dolore atroce al polso sinistro.
L'uomo si è ripreso dalla sorpresa e le balza addosso con tutto il suo peso, sconnessamente.
La ragazza si sente schiacciare e soffocare, il nastro adesivo le brucia la bocca, e le braccia fanno sempre più male.
Ma il dolore maggiore è al suo orgoglio di donna, quando sente la mano di quel verme afferrarle la cintola dei jeans da dietro e strappare con forza verso il basso.
Non è più tempo per pensare o per ragionare, quella bestia le ha sfilato anche le mutandine ed ora il fondoschiena, che lei era orgogliosa di mostrare in spiaggia velato solo da un sensualissimo perizoma, è completamente scoperto; sente la sua femminilità violata in modo brutale e chiama a raccolta tutte le ultime forze in una disperata reazione.
L'uomo rimane sorpreso ancora una volta e viene sbattuto giù dal letto.
Carol vuole approfittare di quel momento per coprirsi ma non può disporre delle mani e così tutto si limita a pochi movimenti che però non danno alcun risultato; pantaloni e mutandine sono abbassati a metà coscia e così c'è sempre una parte della sua natura che rimane alla mercé di chi guarda; non si cura neanche più dell’aggressore che però le ricompare davanti al viso in tutta la sua terrificante mole.
Quella vista è terrorizzante, e la mano destra dell'uomo, chiusa a pugno, paralizza ogni speranza; vede il pugno partire in direzione del suo viso come una valanga da cui non può scappare…
E poi più niente, il buio più assoluto.

***

Riprendere i sensi è ancora più doloroso delle altre volte, le fa male dappertutto, sente un gonfiore al lato sinistro del volto e le fa male la mascella, lo zigomo, l'occhio e persino la tempia; le fa male il collo, la testa, le spalle, le braccia ed anche i seni.
Già, i suoi seni, sente che sono allo scoperto e muovendo la testa per guardarseli vede che la maglietta ed il reggiseno sono stati spostati all'altezza delle sue spalle, il capezzolo destro le fa più male dell'altro e le sembra di vederlo circondato da un livido violaceo.
Più in giù è completamente nuda e un fastidioso bruciore la coglie in zona pelvica; la sensazione di essere stata penetrata con forza la fa scoppiare in un pianto di disperata umiliazione.
Perché? Pensa. Perché proprio a me? E perché in questo modo schifoso, violento e disumano?
Il pensiero è interrotto da un rumore e dal ritorno del suo aggressore che pare ripartire alla carica, è completamente nudo ed il suo organo genitale in erezione ne mostra chiaramente il grado di eccitazione.
Porta ancora la calza da donna ad incappucciargli completamente la testa ed il viso; si avvicina al letto e vi si siede sopra al fianco di Carol che, ormai profondamente umiliata e sconvolta, rimane impassibile limitandosi a volgere il viso dall'altra parte.
L'uomo afferra con le mani le ginocchia della sua vittima che, rassegnata, lo lascia fare; lui le allarga le gambe e, con foga, le si pone sopra pronto a riprendere l’aberrante violenza.
 

Carol non ha più la forza di ribellarsi e l'uomo si sente pago di questa remissività della sua vittima che crede ormai doma.
«Ti piace eh?» le sussurra all'orecchio. «Hai visto che non è poi così male!».
Carol non ha nemmeno la forza di dirgli quanto gli faccia schifo e quanto lontano sia quell'imbecille dalla verità.
Lui in compenso si sente sempre più sicuro di sé e, in un oblio di potere, si toglie la calza dalla testa cercando la bocca di lei per baciarla, rimuovendo il nastro adesivo che fino a quel momento la sigillava.
Carol rifiuta quell'approccio disgustoso ma poi si lascia baciare; non ha cambiato idea sulla violenza che sta subendo, cerca invece il sistema più semplice per estraniarsi da quell’infame momento.
E così ricorda i baci scambiati con il suo Gino, quando ogni tanto teneva gli occhi aperti a scrutare i tratti del viso per carpirne le emozioni e le sensazioni.
Dopo qualche secondo la sua partecipazione al bacio stupisce persino l’aggressore che sente la sua mascolinità elevarsi allo zenit del proprio narcisismo.
 

L’uomo, infoiato e marcio nel cuore, non riesce nemmeno ad intuire il vero motivo del mutato atteggiamento della sua vittima.
Fai pure bastardo, sta pensando Carol. Hai fatto l'errore più grosso della tua vita. Ora che ti ho guardato bene in faccia stai pur certo che ti saprò riconoscere ovunque. Pagherai per il male che mi hai fatto e per quello che mi stai facendo… Adesso ti stai divertendo tu, ma dopo sarà il mio turno, quando ti farò sbattere in galera per il resto dei tuoi giorni.
L'uomo raggiunge l'orgasmo sfilando il membro dal corpo di Carol ed eiaculandole sul ventre piatto, dopo di che afferra un fazzoletto di carta sul comodino e raccoglie il frutto della sua violenza pulendo con cura.
«Sei una donna eccezionale» dice, rivolgendosi a Carol «e mi sei sempre piaciuta, però sembrava che non te ne fregasse niente di me e così sono stato costretto a questo gesto per averti. Ti avevo davanti agli occhi ogni istante, ti sognavo tutte le notti e l'unico mio pensiero era di poter fare l'amore con te. Ora che l'ho fatto e che ho visto che non ti è dispiaciuto, mi sento felice e sono sicuro che lo rifaremo ancora, non è vero?».
Carol, forzando il suo disgusto, fa cenno di sì con la testa e sfodera un flebile sorriso.
«Ora però slegami almeno le mani perché mi fanno male i polsi e le braccia sono tutte indolenzite».
«Lo faccio subito» risponde lui in tono compiaciuto «così potrai rivestirti con calma e ti accompagnerò a casa. Non vorresti farti prima una doccia?».
«No, ti ringrazio» replica Carol. «Preferisco farlo a casa mia perché sono viziata e lì ho tutte le mie comodità, il mio shampoo, le mie creme ed i miei profumi. Sai, una donna ha le sue esigenze».
L'uomo sembra capire ed accondiscende alle richieste della ragazza, soprattutto perché fatte con un tono di voce rassicurante.
Con le forbici taglia i lacci ai polsi di Carol che subito prende a strofinarseli per riattivare la circolazione del sangue, poi si mette a sedere sul letto e, con calma inquietante, comincia ad abbassarsi il reggiseno e la maglietta per sistemarsi.
Lui si allontana dalla stanza e lei prende a cercare le sue cose con rassegnazione; non un solo pensiero occupa la sua mente, è apaticamente estraniata da quell'ambiente.
Le mutandine, i jeans, le scarpe, tutto viene indossato come se non fossero più roba sua, come se non le appartenessero.
Rivestitasi, Carol nota uno specchio e ci si avvicina; vi si pone davanti e, con un impeto di rabbia, strofina le mani tra i capelli, ora scompigliandoli, ora lisciandoseli ed ora tirandoli con forza fino a farsi male.
Non una lacrima esce dai suoi occhi, non un lamento dalla sua bocca; è stanca ed amareggiata, si sente umiliata ed offesa ma non vuole che LUI se ne accorga.
Ora cerca il giubbino e la borsetta; dà una rapida occhiata nella stanza ma non li vede, allora riprende a guardarsi intorno ed a memorizzare ogni particolare di quella che è stata la sua prigione per…
Già, ma che ore sono? Si chiede. Quanto tempo è passato? Da quanto quel bastardo mi ha portata qui?
 

Si rimette a sedere sul letto congiungendo le mani e chiudendosele tra le ginocchia.
Chiude gli occhi allungando indietro la testa come a cercare di rilassarsi e dimenticare, per un momento, l'accaduto.
Il rumore della porta non la coglie impreparata.
Apre gli occhi e si gira in quella direzione.
L'uomo è lì, ben vestito e ben curato, in piedi, col sorriso tranquillo di chi non ha fatto nulla di male, nella mano destra ha il giubbino e la borsetta di Carol ed ora glieli porge allungando il braccio.
«Tieni!» le dice «Appena sei pronta ti riaccompagno a casa».
Carol gli si avvicina e prende le sue cose; mentre si infila il giubbino, tenendo la borsetta tra le gambe, si rivolge all'uomo in tono pacato
«Ma che ore sono? Quanto dista casa mia?».
«Non ti preoccupare» risponde lui «tra poco sarai a casa. È domenica pomeriggio e c'è ancora un bel sole».
Il sole? Pensa Carol. Ma se qui dentro sembra notte fonda! Dove cazzo mi ha portato questo bastardo?
Ma non c'è tempo per le risposte; l'uomo apre la porta della stanza e davanti a loro si para un lungo e desolante corridoio umidiccio.
Alla fine c’è una scala che sale verso una porticina con una piccola vetrata a semicerchio nella parte superiore; da qui filtra la luce del giorno che alla ragazza non è mai sembrata così bella.
Al termine del percorso i due si ritrovano nel piazzale ghiaioso di una villa maestosa; Carol ricorda di averla vista da qualche parte e di averne sempre ammirato la bellezza ed invidiato i proprietari.
La voce di lui interrompe i suoi pensieri:
«Ti piace? La prossima volta che ci vedremo per fare l'amore ti porterò nella stanza grande dove una volta dormivano i nonni. Sono sicuro che ti piacerà e che ci divertiremo tantissimo!».
Carol si sente il sangue rimescolare per la rabbia e lancia un'occhiata di fuoco verso il suo aggressore che, per fortuna, pare non accorgersene; è impegnato ad armeggiare con il telecomando dell'antifurto dell’auto posteggiata lì vicino.
Allo scattare delle serrature lui apre la portiera dal lato guida e si introduce in macchina, si gira verso Carol e le fa cenno di raggiungerlo e salire.
Lei si accomoda sul sedile del passeggero; stringe le gambe e si preme con forza la borsetta sul ventre, con entrambe le mani, per cercare di attenuare quel fastidioso bruciore che sente salire fino al cervello, partendo dalla sua femminilità oltraggiata e profanata con l'inganno e la violenza.
L'uomo avvia il motore e l'auto si muove in direzione dell'uscita; il viale che porta al cancello è lungo ed immerso nel verde di un parco enorme.
Il telecomando che ha azionato poco prima ha già fatto aprire elettronicamente un sontuoso cancello in ferro battuto che porta uno stemma al centro di ogni battente.
Appena varcata la soglia l'uomo ferma il veicolo per controllare che non vi siano ostacoli all’immettersi sulla strada normale.
In quel frangente, guardando distrattamente nello specchietto laterale alla sua destra, la ragazza vede una targa indicante il nome della casa: “VILLA BORELLI”.

***

Ci vuole una buona mezz'ora di strada prima che riesca a notare qualcosa di familiare nel paesaggio che li circonda; Ricorda quello svincolo da cui sono appena passati e che porta alla discoteca “Nautilus” dove è stata qualche volta con gli amici e con il suo Gino.
Da lì ci sono venti minuti di strada per arrivare al suo paese ed ora appare rincuorata.
Tra poco sarà a casa e questa brutta avventura sarà finita; riabbraccerà i suoi cari e potrà raccontare loro tutto quello che ha passato, prima di andare dai carabinieri a denunciare il suo aggressore.
Guardarsi intorno la distrae e la aiuta a scorrere velocemente la distanza che, altrimenti, sarebbe interminabile.
Finalmente giungono in vista delle prime case del paese, vede l'uomo guidare con sicurezza tra le stradine, come le conoscesse a memoria.
Non gli ha nemmeno chiesto dove abita ma questo non la stupisce più di tanto; il suo solo pensiero è quello di arrivare il prima possibile.
La gente, per strada, vede passare il lussuoso macchinone e pare non farci caso, a parte quando la scorgono all'interno; allora li vede additarla e scambiarsi battute e strani gesti, come mettersi le mani sulla fronte o tra i capelli.
L'orologio del campanile segna le sei e dieci; Carol vede il sole al tramonto e capisce che sono le 18.10.
Quell'uomo l'ha tenuta sequestrata per quasi un giorno, o forse sono due.
 

È ancora tutta assorta in questi pensieri quando imboccano la via in cui si trova la sua abitazione.
Il fuoristrada si ferma davanti al cancelletto d'ingresso della villetta costruita con sudore e sacrifici da suo padre; in giardino c'è sua madre con un fazzoletto in mano ed il volto distrutto dal pianto e dalla preoccupazione, vicino a lei due vicine di casa un po' anzianotte che sembrano cercare di rincuorarla.
L'uomo spegne il motore ed allunga il braccio destro cercando di cingere le spalle di Carol, avvicinandosi a lei per un tenero bacio.
Carol, con la sicurezza di essere ormai in salvo, raccoglie tutte le energie, prende la borsetta con due mani e la scaglia sul viso dell'uomo una, due, tre volte, mentre questi si ripara alla bell'e meglio con le braccia e le mani.
La ragazza cerca la maniglia annaspando confusa, riesce ad aprire la portiera e si scaraventa giù dall'auto, mentre sente la madre gridare il suo nome.
La reazione di Carol coglie di sorpresa l’aggressore che ora pare avere perso tutta la sfacciata ed infondata baldanza; assalito dalla paura rimette in moto e si allontana sgommando.
Carol lancia verso il fuoristrada la borsetta che, nel cadere a terra, si apre rovesciando il contenuto.
Lei si affretta a raccogliere quello che è più a portata di mano per scagliarlo di nuovo verso il bersaglio ormai sempre più lontano.
Chi osserva può veder volare un telefonino, una spazzola, rossetto, occhiali da sole etc. etc., il tutto condito da improperi urlati a squarciagola.
«Bastardo…Carogna…Pezzo di m…Figlio di Put...!».
Solo quando l'automezzo sparisce alla vista svoltando in un'altra strada, Carol smette di gridare improperi e scoppia a piangere.
Un pianto disperato che è un miscuglio di rabbia, disperazione e liberazione.
La ragazza esaurisce tutte le forze, inginocchiandosi sul selciato.
Vederla in quelle condizioni fa sì che la madre, urlando il suo nome, si precipiti verso di lei in modo confuso ed apprensivo.

«Carol, bambina mia, sei tornata» esordisce la madre, inginocchiandosi vicino a lei ed abbracciandola. «Mi hai fatto morire al pensiero che ti fosse successo qualcosa, potevi almeno telefonare, sei mancata tutta la notte e tutto il giorno, potevi dirci che eri con un ragazzo, tuo padre è furioso e sarà difficile calmarlo, ma chi era quel ragazzo?».
È Carol ad interrompere, sempre singhiozzando, la fila di parole della madre, e lo fa con un filo di voce, a testa bassa e con le mani ben poggiate all'asfalto:
«Mamma, mi hanno violentata!».
«Cosa?» chiede la madre con il tono di voce di chi non vuole credere, carezzandole la testa. «Cosa hai fatto, bambina mia, non ho capito!».
Carol ha un sussulto, si gira di scatto verso la madre afferrandole le braccia con forza e stringendogliele fin quasi a farle male: «Mi hanno violentata, mamma, mi senti?» dice, alzando sempre più il tono della voce. «Capisci quello che ti sto dicendo? Quel bastardo figlio di puttana che tu chiami ragazzo mi ha violentata!». Teresa è ora immobile, con la bocca spalancata.    Mentre guarda la figlia gli occhi le si riempiono di lacrime, il suo cuore di madre rivive in un attimo tutte le sofferenze e le brutture che riesce a leggere nello sguardo della sua bambina.  Non riesce a profferire parola, nemmeno per un attimo ha dubitato di ciò che le ha detto la figlia, ma vorrebbe tanto riuscire a farlo.

Si butta su Carol in un abbraccio quasi soffocante e tutte e due si sfogano in un pianto a dirotto che nessuno vuole interrompere, nemmeno le due vicine che poco prima stavano parlando con Teresa.
Giovanni, il padre di Carol, osserva la scena dalla finestra chiusa del salotto, seminascosto dalla tendina, ignaro di ciò che è realmente accaduto; è adirato con la figlia che è stata in giro a divertirsi fregandosene di lui e delle sue preoccupazioni.
L'uomo si ingrugnisce sempre più al pensiero del grave torto subìto dalla sua figura di padre comprensivo e affettuoso; medita una giusta punizione per questa scappatella della figlia che ha abusato della sua fiducia.
«Guardale lì» mugugna «prima voleva strapparle i capelli ad uno ad uno, ha rotto le balle a Polizia, Carabinieri, Ospedali e persino ai preti per trovarla, dopo si è incazzata anche con me perché non sono abbastanza severo! E adesso sono lì che si abbracciano come due matte, è già tutto perdonato. E tra un po’ si metteranno lì a contarsi su chissà quali storie romantiche con quel bell'imbusto che se ne è appena andato. Ma io no, porca puttana! Io questa volta non perdono un bel niente e non voglio sentire ragioni. Non ascolterò nemmeno una parola. Anzi, non parlo più, con tutt'e due, per almeno una settimana».
Detto questo, il buon Giovanni rimette a posto la tendina, si allontana dalla finestra e si mette a sedere sulla sua poltrona dove riprende a leggere il giornale, che però è del giorno prima.
 

Sente aprire la porta di casa ma rimane imperterrito al suo posto, senza nemmeno volgere lo sguardo verso di loro.
Afferra nervosamente una sigaretta dal pacchetto posto sul bracciolo della poltrona, poi prende in mano l'accendino e comincia a smanettare finché non dà vita ad una flebile fiammella da cui si accende la sigaretta.
Vuole mantenere un atteggiamento di completa indifferenza.
Sente la figlia salire singhiozzante nella sua stanza, accompagnata dalla madre, ma rimane al suo posto, imperterrito, con l'unico cruccio di sentire, dentro di sé, farsi largo un senso di soddisfazione per il ritorno della sua bambina sana e salva.
Meno di un minuto dopo sente i passi della moglie che si avvicinano a lui finché non la percepisce alle spalle.
Sta ancora fumando, tenendo la sigaretta al lato della bocca, con il giornale aperto sulla pagina economica... senza riuscire a leggere una parola.
Teresa avvicina il viso all'orecchio del marito e in un sussurro, quasi a voler rendere meno drammatica la cosa, gli spiega l'accaduto:
«L'hanno violentata! L'hanno rapita mentre stava tornando a casa, ieri sera, l'anno portata in una villa lontano da qui e l'anno violentata!».
 

L'uomo rimane inebetito, con lo sguardo fisso davanti a sé, la bocca aperta e la sigaretta che gli cade prima sui pantaloni e poi sulla poltrona.
È scioccato ed impietrito.
La moglie si affretta a togliergli il giornale dalle mani e si butta a capofitto a raccogliere il mozzicone di sigaretta, spazzolando con foga i residui per evitare i danni della combustione.
Finita l’operazione Teresa guarda il marito, poggia le mani sulle spalle di lui e comincia a scuoterlo imprecando:
«Hai capito cosa ti ho detto? L'hanno violentata! Brutto testone, non stare lì senza far niente. L'hanno violentata! Hanno violentato la nostra bambina!».
Giovanni non riesce a muoversi, gli occhi gli si riempiono di lacrime che debordano giù per il viso.
Guarda la moglie che lo vede pregno di un dolore indescrivibile.
«La mia bambina… La mia Carol… Non è vero! Non è possibile!».
Si alza di scatto e corre verso la camera della figlia saltando due gradini alla volta.
Appena raggiunta la porta si blocca di colpo, prende un profondo respiro e bussa delicatamente.
«Carol, bambina mia, sono il tuo papà, posso entrare?».
 

La sente piangere sommessamente e questo lo fa stare ancora più male, attende ancora per un attimo una risposta e poi decide di entrare comunque.
Apre pian piano la porta sporgendo la testa, quasi ad accertarsi di non disturbare.
La ragazza è sul letto, avvinghiata attorno al cuscino, il viso nascosto dal pupazzo di peluche preferito: Iaio il cervo.
«Tesoro» chiama Giovanni con un fil di voce «sono io, sono papà. Posso entrare?».
Lei non risponde e si raggomitola ancora di più, avvolta da un senso di vergogna per il fatto accaduto e perché, ora, anche suo padre ne è a conoscenza.
L'uomo si avvicina al letto della figlia a piccoli passi.
È vistosamente impacciato e non sa cosa fare e come comportarsi.
Appena lo raggiunge si china verso di lei e, con un tenero bacio, le sfiora i capelli.
Carol a questo punto balza a sedere sul letto, il peluche rotola via, abbraccia il padre con tutta la forza che ha e scoppia in un pianto a dirotto.
«Non è colpa mia!» urla all'orecchio del padre. «Io stavo tornando a casa. Non lo conosco neanche quel bastardo! Credimi papà, non è colpa mia!».
 

Giovanni, spinto dall'istinto di protezione nei confronti della figlia, abbandona tutte le sue paure e le sue incertezze, l’orgoglio di padre rinvigorisce il suo spirito, ed anche la voce ha ora un tono più austero:
«Calmati ora piccola mia. Ad ogni cosa c'è rimedio. Raccontami tutto e poi vedremo cosa c'è da fare!».
L'uomo fa una breve pausa ed un enorme respiro, prima di riprendere a parlare per porre la domanda più dolorosa:
«Coraggio, smetti di piangere e raccontami tutto».
Mentre Carol, staccatasi dal padre, a testa bassa e piena di vergogna, cerca di trovare le parole per portare a conoscenza dei fatti il padre, questi mette la mano in tasca e ne estrae un pacchetto di fazzolettini di carta, lo apre e lo porge alla figlia.
Carol ne estrae uno e si asciuga il viso dalle lacrime, si soffia il naso e comincia a raccontare.
Il suo sguardo vaga per tutta la stanza senza mai incrociare quello del padre.
Mano a mano che la ragazza prosegue nel racconto, omettendo pudicamente i particolari più scabrosi, Giovanni sente crescere dentro di sé sensazioni contrastanti che lo mettono a disagio e lo fanno star male.
 

Nella mente si fa strada la sensazione di aver fallito nel ruolo di padre, perché non è riuscito a proteggere la sua unica ed adorata figlia:
- Di essere uomo e di dover far pagare caro al colpevole il male fatto a sua figlia.
- Prova vergogna di essere portato a conoscenza della sessualità della sua bambina.
- Sente lo sconforto e la colpevolezza di non aver potuto attirare a sé il dolore subìto dalla figlia.

- Sente crescere dentro di sé la rabbia e la voglia di vendetta che non appartengono al suo carattere, alla sua vita ed al suo essere di buon cristiano credente ed osservante.
- Si sente umiliato nei confronti di sua moglie, dei suoi parenti, dei vicini e del mondo intero, soprattutto di sua figlia.
Lei che ora è lì davanti a lui, sofferente e provata da un'esperienza terribile, e che ora si aspetta da lui un gesto, un'azione, un qualcosa che lui non sa capire.
La situazione lo spaventa e lo atterrisce.
Il pover'uomo viene colto da un attacco di panico.
Senza nemmeno attendere la fine del racconto, porta le mani a tapparsi le orecchie e si rivolge alla figlia:
«Basta, amore mio, ti prego basta!» implora arretrando incerto verso la porta. «Non mi dire più niente, ti prego. Lo troveremo vedrai, lo troveremo e gliela faremo pagare!».
 

Carol è stupita della reazione del padre, ma non può far altro che osservarlo mentre esce dalla stanza, pallido in volto e tutto tremante.
La porta della cameretta si chiude e lei rimane sola.
Cerca con lo sguardo il suo Iaio; appena l'avvista si precipita a raccoglierlo e, stringendoselo forte al petto, torna a sdraiarsi sul letto.
Chiude gli occhi e riprende a piangere.
Giovanni ridiscende le scale quasi per forza di inerzia, le gambe molli e le braccia tremanti, il volto è pallido e sconvolto, lo sguardo assente.
Raggiunge a fatica la sala e la poltrona dove crolla letteralmente.
Lo sguardo è perso nel vuoto.
Vorrebbe che le sue orecchie non avessero sentito nulla, e la sua mente vaga qua e là tra mille desideri e mille ricordi.
A risvegliarlo da questo stato comatoso e riportarlo alla realtà è il rumore dei passi della moglie che, mestamente, gli si avvicina con aria supplichevole.
La povera donna sembra invecchiata di cent'anni, nella mano destra stringe con forza un fazzoletto, mentre con la mano sinistra sembra volersi strappare lembi di pelle dal viso.
«Perché?» chiede con un filo di voce. «Perché proprio alla nostra bambina? E cosa faremo adesso, cosa possiamo fare?».
 

L'uomo poggia i gomiti sulle ginocchia e, con la testa fra le mani, bofonchia qualcosa di incomprensibile.
Teresa si fa più attenta, cercando inutilmente di capire le parole del marito.
Avvicinandosi ancora di più gli pone una mano su una spalla esortandolo:
«Giovanni… Di’ qualcosa!».
«Chiama i Carabinieri» dice l'uomo senza scomporsi «loro sapranno cosa fare. Devono trovare quel bastardo e sbatterlo in galera!».
Teresa annuisce con convinzione e corre al telefono, compone il 112 ed attende, nervosamente, la risposta.
Il militare addetto al centralino, in un primo momento, non capisce assolutamente nulla.
Le parole della donna sono incomprensibili e soffocate da pianti e singhiozzi:
«Signora, si calmi! Faccia un bel respiro e stia tranquilla. Come si chiama?».
Lei cerca di controllare la propria agitazione, dà un colpo di tosse per schiarirsi la voce, prende il coraggio a due mani e dice, tutto d'un fiato:
«Mi chiamo Teresa, Teresa Bartolini e abito a Fossago. Correte, presto, hanno violentato mia figlia».
«Ho capito signora» risponde il Carabiniere «ora mi dia l'indirizzo e manderemo subito una pattuglia. Sua figlia è lì con lei? Sta bene?».
«Come vuole che stia bene?» risponde adirata Teresa, alzando il tono della voce ed acquistando sicurezza. «Le ho appena detto che è stata violentata e lei mi chiede se sta bene. Ma le sembrano domande da farsi?».
«Mi scusi signora, non mi fraintenda. Cercavo solo di capire se dovevo allertare l'ambulanza, magari per qualche ferita grave».
«Oh mi scusi» dice la donna con imbarazzo «non avevo capito. Sa, sono un po’ nervosa e non ci sono con la testa!».
«Non si preoccupi signora» ribatte il milite «la capisco perfettamente, non deve scusarsi. Ora piuttosto mi dia l'indirizzo di casa sua e tutte le informazioni che possono servire per guadagnare tempo».
 

Giovanni segue distrattamente il colloquio telefonico tra la moglie e l'interlocutore, è ancora fermo nella posizione di prima e riflette sull'accaduto.
Mille pensieri gli passano per la testa ed ognuno di essi contribuisce ad alimentare in lui una rabbia inconsapevole, accompagnata da un’insopportabile sensazione di impotenza e di fastidio.
Suonano alla porta, istintivamente alza la testa volgendo lo sguardo verso la moglie che ormai dialoga con il Carabiniere all'altro capo del telefono come fossero amici di vecchia data.
L'uomo decide di alzarsi ed andare ad aprire.
Passando vicino alla moglie si mette a brontolare qualcosa per far sì che smetta di parlare e riagganci la cornetta.
Teresa taglia il discorso e riappende, mentre il marito è ormai arrivato alla porta, che apre quasi di scatto.
Ciò che vede non gli piace per niente, anzi, lo fa andare su tutte le furie.
Davanti a lui ci sono le due donne che poco prima stavano parlando con la moglie e, allungando lo sguardo, può notare appena fuori del cancelletto d'ingresso un folto gruppo di altre donne, ragazze e bambini.
 

Le due anziane signore hanno solo il tempo di dire poche parole:
«Buongiorno Gianni, come sta la Carol? Cosa è successo?…».
«Parlate con mia moglie» dice l'uomo con tono sconsolato. «Vi spiegherà tutto lei, scusate ma vorrei passare…».
Ciò detto si fa largo tra le due e si dirige verso la strada.
La piccola folla, fuori dal cancello, si fa subito da parte per lasciarlo passare.
Nessuno fiata se non per un candido saluto di circostanza.
Giovanni attraversa la strada e si mette a camminare senza una meta precisa.
Non ce l'ha con quella gente ma ora ha bisogno di stare da solo, di pensare, di parlare con se stesso.
 

Ma, soprattutto, ha bisogno d’aria… di respirare a pieni polmoni.
Intanto, nella casa, Teresa è rimasta di stucco per lo strano comportamento del marito.
Le due signore, timidamente, si ripropongono:
«Coraggio Teresa!» azzarda una di loro. «Possiamo fare qualcosa? Cosa è successo?».
Lei non riesce a spiaccicare parola, cerca nella tasca del grembiule il fazzoletto e scoppia a piangere come una bambina.
Le due donne le si avvicinano ed una di loro l'abbraccia maternamente cercando di consolarla.
Con il passare dei minuti riescono a calmarla ed a farsi spiegare l'accaduto.
«Però non dite niente a nessuno» dice loro Teresa «per adesso è meglio che non sappia niente nessuno».
Le due donne assentono con il capo e le si fanno ancora più vicine.

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CRIME STORY - Lo stupro - di Alessandro Volpi - Editrice Albatros

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Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

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