BIOGRAFIA AUTORE
Gianluca Grechi è nato a Milano, dove si è laureato in Economia e Commercio all’Università Bocconi. Dopo una breve esperienza di lavoro ha conseguito un MBA alla University of California di Berkeley. Rientrato in Italia, ha lavorato prevalentemente nel settore editoriale, focalizzandosi su tecnologia e new media (RCS, Class Editore, Italia Online (gruppo Olivetti), Seat Pagine Gialle). Nel 1999 si è trasferita a San Francisco (California) per conto di una società internet italiana (Vitaminic) e successivamente ha avviato una società di consulenza alla quale ho affiancato l’attività di corrispondente per varie testate italiane (Sole24Ore, Radio24, Avvenire, Gentleman, MF, Radio Classica), occupandosi di tecnologia e internet.
Ha sempre avuto una grande passione per la scrittura e in particolare per il teatro e si è occupato di recensioni teatrali per i mensili Sipario e Letture. "Marcus Whilsby e il mistero di Haltonbridge" è il primo di una serie di racconti che vedono come protagonista un ragazzo di undici anni dotato di un eccezionale talento per la matematica.
Con questo racconto ha vinto il torneo di scrittura di IoScrittore 2013 organizzato dal gruppo editoriale GEMS.
PRESENTAZIONE
Caro Lettore,
Marcus Whilsby ha undici anni e non è un ragazzo come tanti. Solo che ancora non lo sa. Rimasto orfano da piccolo, vive con la burbera ma affettuosa zia Peggy e il bizzarro e simpaticissimo zio Ray e ha una passione non comune per la matematica. I numeri sono il suo mondo, le operazioni per lui non hanno segreti, e la matematica è anche il legame con i suoi genitori, che erano professori universitari e insigni studiosi. Marcus ama leggere e rileggere i testi scritti da suo padre, anche perché così gli sembra di averlo ancora vicino.
Sono proprio le sue doti straordinarie ad aprirgli le porte di una scuola prestigiosa, Haltonbridge, un istituto dove Marcus si sente accolto e apprezzato, e dove ha occasione di conoscere altri ragazzi come lui e di farsi, per la prima volta nella vita, degli amici sinceri. Ma qualcuno trama nell’ombra, una mente perversa e geniale che conosce l’enorme potere di alcune formule teorizzate dal padre di Marcus, in grado di sovvertire le leggi naturali che governano il mondo. Marcus e i suoi amici verranno così trascinati in un’avventura senza limiti contro creature misteriose e potenti, nella quale il prezzo da pagare sarà altissimo…
* * *
Buona lettura...
MARCUS WHILSBY E IL MISTERO DI HALTONBRIDGE
Prologo
«M10, M10, S0LT4NT0 M10!» Era in equilibrio a piedi nudi su un lembo di roccia, in cima al monte Rowan, da dove dominava un orizzonte di nubi scure, solcato a tratti da lampi che squarciavano la luce opaca del giorno. Le braccia erano spalancate e circondavano il vento che gli sollevava i capelli lunghi e bianchi. Il mantello sventolava come un vessillo sull’imminente vittoria, tra i bagliori del cielo che, a tratti, illuminavano i lineamenti severi del suo volto. La valle sottostante rigurgitava di attività. Un manipolo compatto di guerrieri incappucciati, pronto al grande assalto finale, serrava i ranghi e marciava senza sosta tra il fango e le rocce. Tenevano il braccio proteso in aria, puntando verso l’infinito dell’universo i loro raggi bianchi e letali, portatori di oblio, la peggior pena per chi, sulla memoria, ha costruito la propria storia. Il successo era a un passo, tutto sarebbe stato riscritto: il destino, la storia, la sua storia, l’onnipotenza che si era guadagnato, battendo gli uomini che s’illudevano di poterlo fermare. Dalla notte dei tempi, quando l’universo si era messo in moto, governato dalle eterne 3 leggi dei numeri, il suo spirito si era ribellato all’ordine dato. Mancava poco e le nuove regole sarebbero state le sue.
Ci sarebbe stata pietà solo per chi, rinnegando la memoria del proprio passato, si sarebbe piegato al nuovo ordine e unito al suo creatore. Fiumi di acqua precipitavano dal cielo come se la terra volesse lavare via quegli uomini, liberarsi dei loro corpi, estranei all’ordine originale delle cose, quello che aveva guidato il mondo dalla notte dei tempi fino alla fine che si stava per compiere. Il Signore dell’Universo puntò il suo raggio verso il cielo, chiuse gli occhi e, come di fronte a una lavagna immaginaria, con gesti rapidi e geometrici tracciò segni apparentemente incomprensibili intervallati da lunghe sequenze di numeri, suoi fedeli alleati. Poi abbassò il braccio e sfiorò con le dita la roccia che spuntava dal fianco della montagna. Si udì uno schianto e la terra cominciò a tremare. Tra i ranghi del suo esercito si alzò un grugnito di sofferenza, mentre dalla parete della montagna si staccò un gigantesco blocco di pietra, che cominciò a roteare sempre più veloce fino a che lo strato superficiale si tinse di un rossore incandescente. Il Signore dell’Universo riaprì gli occhi giusto in tempo per vederlo bucare le nuvole e sparire verso il buio. L’ultimo atto era compiuto. Tra lui e la vittoria non c’erano più ostacoli. Solo il tempo di aspettare che il suo omaggio a chi aveva osato intromettersi, senza essere invitato, arrivasse a destinazione.
* * *
1. Il Nido di Zia Peggy
C’è un momento in cui il viaggio iniziato non può più essere interrotto, corriamo verso una frontiera, passiamo attraverso una porta misteriosa e ci svegliamo dall’altra parte, in un’altra vita. Isabelle Allende, scrittrice
Ci sono giorni normali in cui tutto è per l’appunto normale e poi ci sono giorni che, a posteriori, uno si domanda come abbia potuto non accorgersi che qualcosa di eccezionale era nell’aria. Quella mattina, quando Margaret Bradley si svegliò nel suo letto, al primo piano della pensione che portava il suo nome, Il Nido di Zia Peggy, nella città di Winsbury, pensò che quello che stava per iniziare fosse un giorno come tutti gli altri. Forse per questo, con un paio di gomitate ben assestate, cercò di svegliare lo zio Ray per mandarlo in avanscoperta. Un giorno normale non aveva bisogno di eroi e lo zio Ray quella mattina (così come aveva fatto tutte le altre prima di quella) poteva cavarsela benissimo da solo. Era una banalissima giornata di fine agosto, come la zia Peggy e lo zio Ray ne avevano già vissute per quasi cinquant’anni. In tutti quegli anni, lo zio Ray aveva imparato a non disubbidire alla moglie, specialmente la mattina di un giorno normale. Raccolse le forze e si mise a sedere sul letto, passandosi le mani tra la barba e i capelli (chi riusciva più a distinguerli) che, con l’incuria degli anni, si erano trasformati in un unico folto cespuglio bianco.
Per tutta la notte un fastidioso raffreddore gli aveva tappato il naso che, di nascosto dalla zia Peggy, si strofinò sulla manica del pigiama. Aveva una corporatura massiccia, era molto alto e si muoveva lentamente specie quando aveva accanto la moglie che era l’esatto contrario, bassa di statura, agile e dai lineamenti minuti. «Fai bollire l’acqua e prepara la tavola, per favore. Ho promesso a Mrs. Thornton che avremmo servito la colazione alle nove in punto» gli disse lei. Dettate queste brevi istruzioni con tono secco e deciso – lo zio Ray si guardò bene dal commentare – la zia Peggy voltò la testa dall’altra parte, per cercare di riprendere il sonno nel punto in cui era stato interrotto. Strisciando distrattamente i piedi per terra, lo zio Ray tentò di infilarsi le pantofole. Ne trovò solo una. Piegò la schiena e con fatica provò a passare e ripassare la mano sotto il letto, ma tutto quello che gli riuscì di scovare furono solo i resti martoriati di una povera lucertola. «Ruby!» grugnì tra sé. Ruby era uno splendido gatto persiano che viveva con i coniugi Bradley da cinque anni. Il rapporto con lo zio Ray era apparso difficile sin dal giorno del suo arrivo quando, infastidito dal goffo tentativo di essere afferrato per la collottola, aveva estratto e affondato gli artigli nelle braccia del nuovo padrone.
Questi, di scatto e con un gesto istintivo, l’aveva lanciato contro un ripiano della credenza, dove la zia Peggy aveva appena appoggiato un vassoio di tazze da tè. A nulla erano valsi i tentativi di giustificazione dello zio Ray. Il gatto fu consolato con una ciotola di latte caldo, lo zio Ray spedito dal medico per una puntura di antirabbica. Inforcati gli occhiali che aveva strofinato sulla manica del pigiama (ebbe il sospetto che fosse la stessa del naso), si avvicinò alla finestra. Un raggio di sole fece capolino tra i rami fogliosi della quercia e luccicò sulle cornici delle foto, appoggiate su un’antica cassettiera di faggio rosato che lo zio Ray aveva costruito da solo poco dopo essersi sposato. In una si vedeva una giovanissima zia Peggy, in abito da sposa, accanto a un irriconoscibile zio Ray, in giacca e cravatta, magro e senza barba. Il cielo si stava coprendo di nuvole, solo un’avvisaglia di quanto previsto per quel giorno, e il raggio di sole lentamente si spense. Erano i primi segnali dell’autunno ormai alle porte. La giornata stava cominciando male e con una pantofola sì e una no, lo zio Ray scese la rampa delle scale e si avviò verso la cucina. Il gatto lo aspettava, strusciandosi contro la porta-finestra che dava sul giardino. Lo zio Ray l’aprì e con una leggera pedata lo fece ruzzolare sull’erba del prato. Il gatto si voltò soffiando, il pelo irto sulla schiena. «MAOW!» furono le sue ultime parole, prima di sparire dietro una siepe.
Ruby era uno spirito libero. Spesso si eclissava per lunghi periodi e poi tornava, portando con sé alcune delle sue vittime – per lo più topi, ranocchie, lucertole o uccellini – che deponeva, come offerte propiziatorie, sullo zerbino della cucina o, più spesso, sotto il letto dei coniugi Bradley. Ma questa volta lo zio Ray non sapeva che non lo avrebbe mai più rivisto. Da ormai dieci anni, lo zio Ray e la zia Peggy gestivano una piccola pensione. In tutto cinque stanze di cui una riservata a loro e una a Marcus Whilsby, il loro nipote che si era trasferito a Winsbury sei anni prima, dopo la scomparsa dei genitori. Marcus aveva da poco compiuto undici anni. Sarebbe tornato quel giorno dal campeggio dove era andato con un gruppo di amici, dopo aver implorato per oltre un mese la zia Peggy che, memore di quanto accaduto ai genitori del nipote, vedeva pericoli dappertutto. Solo l’intervento dello zio Ray che si era offerto di accompagnarlo era riuscito a sbloccare la situazione. Per Marcus erano gli ultimi giorni di vacanza, prima di iniziare il nuovo anno scolastico nel prestigioso Haltonbridge Institute, dove era stato ammesso con una borsa di studio. La terza stanza della pensione era occupata da Mrs. Selma Thornton, un’anziana vedova i cui lineamenti ricordavano a Marcus quelli di un’oca, per via del collo lungo, del naso e la bocca appuntiti e dei capelli bianchi come il latte, tirati e raccolti in una crocchia.
Lo zio Ray non la poteva sopportare, specie quando si sedeva in cucina a spettegolare con la zia Peggy. Era sicuro che buona parte dei commenti lo riguardassero personalmente e aveva il sospetto che Mrs. Thornton lo spiasse di nascosto per poi riferire alla moglie. I rapporti tra i due si erano ulteriormente deteriorati dopo che lo zio Ray aveva inavvertitamente dato fuoco alla stanza della donna. L’incidente risaliva all’anno dell’arrivo di Marcus alla pensione. Lo zio Ray, che era appassionato di fai-da-te, aveva deciso che insieme al nipote avrebbe costruito una minuscola astronave da spedire sulla Luna. Il progetto era ambizioso, non c’erano dubbi, ma quando si trattava di Marcus la fantasia dello zio Ray aveva come limite il cielo e spesso, come in questo caso, neppure quello. Si procurarono tutto il necessario e passarono giornate intere nel garage-laboratorio a segare, piallare, inchiodare, martellare, limare, levigare, incollare e verniciare, finché arrivò il giorno che Marcus aspettava con impazienza: quello del conto alla rovescia. L’astronave (in realtà si trattava di un tubo di metallo sulla cui estremità era attaccato un cono di plastica e al cui interno era infilato un potente fuoco artificiale) fu appoggiata su una rampa di lancio di legno e la miccia fatta correre lungo tutto il giardino, fino al garage. «Meno sette, meno uno, meno cinque, decollo!» urlò il piccolo Marcus, saltellando eccitatissimo.
L’astronave partì a razzo verso l’alto, quindi qualcosa andò storto. Invece di esplodere in una cascata di colori, come avrebbe voluto lo zio Ray, si limitò a eseguire un paio di piroette nel cielo azzurro e terso del pomeriggio, per poi puntare dritto dritto verso la finestra di Mrs. Thornton. Si udì il rumore di vetri infranti e un botto sordo, seguito da un urlo soffocato, mentre dalla finestra usciva uno sbuffo di fumo grigio. Per diversi giorni, al collo di Mrs. Thornton, fece la comparsa un cornetto che la donna portava all’orecchio destro ogni volta che le si rivolgeva la parola. A parte ciò, l’incidente non ebbe serie conseguenze. Da allora Marcus divenne l’ombra dello zio Ray, vuoi perché i suoi esperimenti lo divertivano come nient’altro al mondo, vuoi perché aveva un’ammirazione smisurata per questo gigante che era entrato nella sua vita e dal quale si sentiva amato e protetto come fosse stato suo padre. La pensione era occasionalmente occupata da altri ospiti, tra cui i più assidui erano Mr. Percy Johnson, un commesso viaggiatore che spuntava solo quando il suo giro lo portava a Winsbury, e Mr. Martin Isachson, che si era presentato come uno scrittore professionista, ma del quale, in biblioteca, Marcus non era mai riuscito a trovare neppure un libro. Sulle pareti dell’anticamera erano appese altre fotografie della zia Peggy e dello zio Ray, giovanissimi, in giro per il mondo: ecco lo zio Ray che tenta di raddrizzare la torre di Pisa, la zia Peggy con un piccone davanti al muro di Berlino o entrambi sdraiati al sole sulle spiagge spagnole della Costa del Sol.
C’erano anche alcune foto di Marcus con i genitori: la madre Mary, sorella minore della zia Peggy e il padre, Peter, entrambi docenti di matematica. Insieme avevano lavorato ad alcuni progetti di ricerca e pubblicato trattati che erano stati molto apprezzati dal mondo accademico. Marcus aveva nella sua stanza alcuni degli scritti dei genitori, i cui titoli erano per la maggior parte incomprensibili: Numeri ed energia, Matematica dinamica, La vita e i numeri o Numeri immaginari, un’opera dal titolo intrigante che Marcus aveva cominciato a leggere due anni prima, credendo si trattasse di un racconto di avventure ambientato in qualche mondo fantastico. Molti di questi libri erano invece raccolte di formule e teoremi, molto complessi e difficilmente comprensibili per un ragazzo della sua età, e più in generale per chi non avesse avuto conoscenze specifiche nel campo. Dopo aver messo la teiera sul fuoco, lo zio Ray si lasciò andare a un lungo sbadiglio, spalancando le mascelle a tal punto che per alcuni istanti temette di non riuscire più a richiudere la bocca. Non c’era dubbio: quel giorno di agosto sembrava il più noioso tra i tutti i giorni di fine estate. Eppure, qualcosa di straordinariamente importante stava per accadere, qualcosa che avrebbe segnato per sempre la vita di molti e in primo luogo quella di Marcus Whilsby. Terminato lo sbadiglio, lo zio Ray uscì in giardino.
L’erba era inumidita dalla rugiada e qua e là era coperta dalle prime foglie cadute dai rami della quercia. L’autunno pareva davvero dietro l’angolo. Arrivò al cancello dove raccolse, come d’abitudine, la bottiglia di latte e l’Eco di Winsbury, il quotidiano locale. Mentre tornava verso la cucina, distratto dai titoli di prima pagina del giornale, mise il piede (quello scalzo naturalmente, grazie Ruby!) su qualcosa di metallico. Raccolse, nascosto tra l’erba, un picchetto della tenda di Marcus che immaginò fosse scivolato dallo zaino del nipote il giorno prima. Si sedette sul muretto del giardino, per controllare le condizioni del piede. La zia Peggy, che aveva seguito tutta la scena da dietro la tenda della finestra del primo piano, picchiettò con le nocche sul vetro e con un’espressione severa fece cenno al marito di rientrare. In cucina, lo zio Ray fu accolto dal fischio acuto della teiera. Appoggiò picchetto, giornale e bottiglia sulla credenza, spense il fornello e iniziò a preparare la tavola. Fu solo dopo due sonori starnuti che lo zio Ray, affacciato sulla porta della cucina, annunciò all’unico ospite della pensione che la colazione era pronta. Tenne il volume della voce volutamente più basso del necessario, nella speranza che Mrs. Thornton stesse ancora dormendo e non lo sentisse. Un istante dopo la porta della donna si spalancò d’improvviso. «Che bisogno c’è di urlare, non sono ancora sorda» gracchiò Mrs. Thornton, uscendo dalla stanza. «E poi avevo chiesto di far colazione alla nove e sono già le nove e cinque» aggiunse stizzita. Lo zio Ray, senza farsi vedere, prese uno dei biscotti dal piatto di Mrs. Thornton, lo leccò da entrambe le parti e lo rimise al suo posto.
«Buongiorno Selma, zucchero nel tè?» aggiunse quindi, con un sorriso forzato. «Quattro, grazie, più il solito cucchiaio di miele», rispose Mrs. Thornton. Uno sciroppo, commentò tra sé lo zio Ray. La colazione procedeva svogliatamente, come il resto della mattina, quando il rumore di chiavi che armeggiavano nella serratura e la voce di Marcus fecero scattare come una molla la zia Peggy...
* * *
MARCUS WHILSBY E IL MISTERO DI HALTONBRIDGE - Edizione IoScrittore - online
questo il trailer:
http://www.marcuswhilsby.it/index.php/presentazione
siti vari:
www.marcuswhilsby.it www.facebook.com/ilmisterodihaltonbridge https://twitter.com/marcuswhilsby
CARO LETTORE, ARRIVEDERCI AL PROSSIMO APPUNTAMENTO LETTERARIO.