Partecipa a Sesto Daily News

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

"UN RACCONTO SOTTO L'ALBERO" di Marcella Vivacqua

Di che materia sono fatti i sogni?, si chiese Geraldine intenta a camminare per le vie di Parigi. Eterei come l’aria, soffiano all’improvviso su di noi, come un vento primaverile che accarezza e avvolge ogni cosa.

Condividi su:

BIOGRAFIA AUTRICE

Marcella Vivacqua, nata il 10 novembre 1955, nei suoi studi filosofici ha approfondito il rapporto fra Teologia e Filosofia. Fin da piccola coltiva l'amore per la scrittura: all'età di dieci anni, le viene pubblicato un racconto breve sul periodico "Beato Angelo". La sua prima pubblicazione " Il cielo sul soffitto", Europa Edizioni, mentre Un racconto sotto l’albero è il secondo romanzo della “trilogia dello specchio”. 

PRESENTAZIONE

Caro Lettore,

all’ombra di una vecchia quercia, i pazienti di Villa Olimpia si radunano per ascoltare, dalla voce soave della dottoressa Arianna, la dolce storia di Geraldine, la coraggiosa donna parigina che una mattina di giugno lascia la sua città e il suo lavoro per ricominciare da un sogno. < da quell’alone di mistero che attende di essere svelato>. E per dare forma a quel sogno, approda in una ridente cittadina italiana bagnata dal Tirreno dove incontra Mimì, l’uomo della sua vita.

Tra i due inizia una tenera storia d’amore, si sposano e dalla loro unione nasce Pierfrancesco. Ma proprio quando l’armonia sembra regnare indisturbata, qualcosa cambia; l’ansia di Mimì per una ricerca importante nell’azienda farmaceutica in cui lavora lo allontana dalla sua donna, portandosi a chiudersi in un mutismo solitario. Lei inizia a sentirsi trascurata e le troppe liti portano le loro strade a dividersi. Eppure l’uno sente la mancanza dell’altra: saranno destinati a ricongiungersi? Chiedetelo agli ospiti di Villa Olimpia…

Buona lettura…

* * * 

UN RACCONTO SOTTO L’ALBERO

Prologo

C’era sempre il canto degli uccellini ad allietare l’antica quercia che dominava il parco di un elegante caseggiato neoclassico, specie allorquando la primavera inverdiva la natura. Da molto tempo, la giovane Arianna prestava servizio di volontariato presso la Casa di Cura nota con il nome di “Villa Olimpia”. Ormai conosceva le anamnesi di ciascun paziente, e da geriatra qual era, si era convinta di quanto fosse importante, più dei farmaci, saperli ascoltare o destare la loro immaginazione, le emozioni, i perché infiniti di un’esistenza che si perde e si ritrova. La narrazione…, pensò, raccontare ogni giorno una storia; far percepire la qualità di un tempo che, inesorabile e senza posa, vola via. Il caro e vecchio libro: ecco uno strumento necessario; leggere ad alta voce un racconto. Ed allora, anche le più pallide emozioni riaffiorano, e con essi, i ritmi e i suoni dei propri luoghi: e le proprie inclinazioni rinverdiscono. Ora, seduta su una panchina all’ombra dei rami rigogliosi della quercia, Arianna aspetta i suoi pazienti che lentamente si sistemano seduti intorno a lei. Quando quelle belle testoline bianche le confidano la loro attenzione, la giovane donna lascia fluire fra le mani le pagine del libro; per un attimo schiude i suoi grandi occhi verdi e si lascia invadere dall’inconfondibile odore della stampa, che predispone l’animo alla lettura. E proprio qui, sotto l’albero, dove altri si attardano ad arrivare, prima di iniziare a leggere, chiede: «Siete pronti? Bene. Questa storia si svolge in un paesino del Tirreno…».

I Capitolo

Mimì e Geraldine

Chi è Mimì Degli Orpini? Un chimico che custodiva un sogno: vincere il premio Lavoisier. Ora si trovava senza premio, senza moglie e con un figlio di otto anni, conteso. Era un uomo senza una solida struttura a cui aggrapparsi. Proprio lui, valente chimico, che conosceva a memoria le strutture molecolari di ogni elemento. Aveva toccato l’apice del diniego della propria esistenza. Abitava in un grazioso centro marino, come se ne vedevano tanti in questa parte del mondo. La sua casa, costruita negli anni Sessanta dal padre Filippo, Cavaliere del lavoro, era così ben inserita fra quelle alte e frastagliate scogliere della costa meridionale del Tirreno, che si vedeva appena dalla piccola baia ad essa sottostante. Amava troppo i suoi luoghi, Mimì; nessuno l’avrebbe mai schiodato da essi: non avrebbe mai rinunciato alle sue passeggiate lungo la battigia, né privato la sua vista dagli innumerevoli tramonti che si perdono nel mare. Geraldine Laroche, invece, è sua moglie, anzi la ex, almeno per ora. Viveva in un’altra parte del mondo. Aveva trentacinque anni quando lasciò la sua Parigi: era il mattino del 20 giugno di nove anni fa. Il primo bagliore della luce del giorno avvolgeva Parigi: le sue rue, i magnifici boulevard haussmanniani che attraversano la città. Qualcosa di nuovo ora si profilava davanti agli occhi di Geraldine appena dischiusi. I raggi solari filtravano attraverso la finestra del balcone posto al secondo piano di uno storico palazzo, in boulevard Saint-Michel. Geraldine aveva dimenticato, la sera prima, di tirare giù la tenda pesante di velluto bordeaux, mentre quella delicata di un morbido tessuto trasparente e bianco le annunciava l’inizio di un nuovo giorno.

Una voce la svegliò dicendole: «Svegliati, Geraldine! Devi fare le stesse cose che hai fatto stanotte durante il sogno. Sbrigati! È tardi…» «Mamma, lasciami dormire ancora un poco» rispose mentre cercò di nuovo riparo fra le lenzuola. Era ancora in dormiveglia quando i ripetuti bip della sveglia le ordinarono di alzarsi. Svogliatamente si lasciò guidare da leggeri movimenti delle braccia che l’aiutarono a stirare l’intero corpo. Poi, con la stessa leggerezza, poggiò il palmo di entrambe le mani su quel soffice materasso e si sistemò seduta; fece un leggero sbadiglio che coprì con la sua agile mano destra, ultimato il quale, disse: «Ah, l’amour! Che sogno straordinario ho fatto…». Finalmente si alzò, avvolta da uno dei pigiami di seta appartenuti al padre. Il pigiama, il pianoforte, le suppellettili sui mobili erano i simboli di ciò che era stata la sua vita trascorsa insieme ai genitori, ora assenti. Dormiva quando la raggiunse la notizia del loro terribile incidente automobilistico. Era figlia di estrosi musicisti, Geraldine. Fin da bambina, il padre Marcel le impartiva lezioni di pianoforte; mentre la madre, Gabrielle, le insegnava il bel canto. Entrambi si esibivano in uno di quei locali sparsi lungo la rive gauche della Senna. Gabrielle amava interpretare le canzoni di Edith Piaf: «La sua voce è come il vento…», ripeteva a Geraldine, «un soffio che si deposita in fondo all’anima». Poi il rumore assordante di uno schianto annullò per sempre quell’armonia perfetta, l’estro, la gioia: il suono si fa greve, mentre canta al cuore di Geraldine la sua solitudine. Certo, Geraldine era già abbastanza adulta per cavarsela da sola; ma non è questo il punto. La verità è che quando i genitori non ci sono più, una parte di te muore insieme a loro. Dopo essersi svegliata per bene sotto la doccia, indossò i suoi jeans preferiti, una magliettina di jersey a maniche lunghe e le sue comode scarpette da tennis. Appena nell’ingresso, prese la sua ampia borsa a tracolla dall’appendiabiti, ed uscì. Geraldine Laroche lavorava come impiegata in uno di quei numerosi distretti amministrativi, gli arrondissement, sparsi sul territorio parigino: il Panthéon, credo si chiamasse così il suo distretto, posto a servizio del Quartiere Latino. Gravitavano su quelle rue di Paris fra i bistrot, le antiche librerie, i molti e accattivanti negozi, numerosi studenti iscritti alla Sorbona. 

Come ogni mattina, raggiungeva il suo luogo di lavoro, facendosi spazio fra i tanti sguardi che si perdevano nel vuoto senza mai incontrare quello altrui. Aveva ritmi sostenuti Geraldine, che gestiva con metodica consuetudine: dalla prima colazione, con croissant e grand crème, il caffelatte parigino, consumata au zinc, al banco, del solito café, il lavoro, la casa. Tutto era svolto con pragmatica e austera decisione; di giorni che si susseguivano l’uno come la perfetta replica di quello precedente. François si stupì quando la vide fuori, seduta in uno dei tanti tavolini messi a disposizione della clientela. Un ciuffo dei suoi capelli chiari e mossi gli copriva gli occhi nocciola distanti l’uno dall’altro; lasciò scivolare la mano fra i capelli, così da scoprire il viso, prima di prendere l’ordine di Geraldine. «Le porto il solito, Madame?» le chiese, sfoderando il suo ormai proverbiale sorriso che metteva in risalto le sue solide mascelle e le ampie narici del suo naso dalla punta tirata verso l’alto. «No», rispose. «Voglio solo un caffè, “un espresso all’italiana”». Per quanto François si sforzasse di mantenere un atteggiamento elegante di fronte alla clientela che ogni giorno si affollava numerosa, spesso veniva tradito dal suo tipico idioma argot, che omette e trita volentieri alcune sillabe delle parole. In altri termini, parlava un francese pittoresco, solitamente usato dalla gente semplice, nella stessa misura in cui da noi vengono usate le parole dialettali proprie di un qualsiasi luogo. In quella soleggiata mattina, vi era tanta bella gente seduta comodamente fuori. Egli annotò tutte le ordinazioni sul suo block-notes, ed entrò. Un vento delicato accarezzava il volto di Geraldine, muovendo appena sulle spalle i suoi capelli ondulati castano scuro. Era intenta a guardare i passanti quando la tazzina del caffè appena servita la distolse dalle sue “congetture”. Di ciascuno di loro cercava di individuare la nazionalità e la professione. Così, senza pensarci più di tanto, se un passante di mezza età indossava abiti sobri, portava una cartella o degli occhiali da vista era per lei un docente universitario. 

Poi sorrise, invece, pensando a tutte le potenziali variabili contenute nell’uomo. Allora quell’ignaro passante poteva essere chiunque: un professore, un manager, un diplomatico o semplicemente un uomo che vestiva elegante e che portava la cartella solo per darsi un tocco professionale. Insomma, quel giorno Geraldine si divertì a giocare con qualsiasi elemento si offrisse ai suoi occhi. E il caffè appena consumato era il segno di qualcosa di nuovo; un cambiamento imminente, che avrebbe radicalmente trasformato la sua vita; l’inizio, l’alba di un nuovo giorno. Aveva dimenticato a casa l’orologio, ma non ne sentiva la mancanza: doveva solo attendere il verificarsi degli eventi, e poi seguirli, come se venisse istruita da una nuova e per lei insolita incoscienza. Si sentiva serena e appagata come quando, tanto tempo fa, ricevette in dono dalla madre una bambola di porcellana. Aveva dodici anni allora: una età nella quale ci si sente abbastanza grandi per giocare con le bambole ma non abbastanza per possederle. L’età della crisalide che aspetta di diventare una magnifica farfalla prima di spiccare il volo. Ora pensava a quella bambola dal volto roseo e paffuto, dagli abiti curati fin nei minimi dettagli, ancora seduta sul comò della sua cameretta. Con un velo di nostalgia, pensò di non aver mai provato a spiccare il volo. Schiva e a volte fin troppo timida, non cercò mai di proporsi ai suoi compagni di classe né alle altre amicizie che ebbe nel corso degli anni. Era convinta di essere sempre inadeguata rispetto alle circostanze che di volta in volta si affacciarono sul suo cammino. Si era lasciata vivere senza vivere la sua stessa vita. Mai un gesto o uno sguardo di troppo che avrebbe fatto emergere i sentimenti che provava verso Pierre, un giovane biondino dai bei lineamenti delicati. Allora era ancora una studentessa “modello” che frequentava l’ultimo anno del Lycée Henri-IV, in rue Clovis, dove ebbe l’opportunità di studiare, fra le lingue straniere, l’italiano. Pierre, che fingeva d’ignorare, era Troppo bello per me!, pensava. Certo, Geraldine non era una bellezza “mozzafiato”: aveva un corpo fin troppo esile ma elegante; una bellezza discreta, tutta da scoprire. Non era un tipo che lasciava un segno indelebile alla prima occhiata; ma alla seconda, non si restava indifferenti alla profondità del suo sguardo. I suoi occhi scuri e introspettivi, che risaltavano sulla sua pelle bianca, davano l’impressione di possedere una navigata conoscenza degli altrui stati d’animo. 

Così Pierre, che amava gli sguardi e il portamento semplice ed elegante di Geraldine, non ebbe mai l’opportunità di avvicinare la “misteriosa e sfuggente compagna di classe”. «Bene», si disse levandosi dalla sedia, «ciò appartiene al passato. Ora ho un presente da costruire e un aereo da prendere. Sì, per dove? Succederà qualcosa che mi indicherà la strada… devo solo seguire le mie pulsioni, cogliere i segni». Ciò che ricordava del suo sogno erano le poche immagini evanescenti che si sovrapponevano l’un l’altra, sfuggenti e impalpabili come una danza di ombre. Solo l’attesa di una felicità percepita durante la notte, e che si ripropose con la medesima intensità al mattino, le restituì la certezza necessaria per proseguire. Poi, appena fece esperienza degli eventi già sognati, quelle immagini si schiarirono diventando sempre più nitide. Di che materia sono fatti i sogni?, si chiese Geraldine intenta a camminare per le vie di Parigi. Eterei come l’aria, soffiano all’improvviso su di noi, come un vento primaverile che accarezza e avvolge ogni cosa. E allora anche la più piccola quotidianità prende le immagini del sogno: inatteso, imprevedibile, che declina quell’apparente equilibrio perfetto di eventi concatenati fra loro, e che scandiscono il nostro tempo. Cosa c’è dietro un sogno se non una parte delle mie emozioni che in un solo istante prendono forma, vivono di luce propria. Chi mai può dirmi che quest’attimo, seppure illusorio, non sia vero? Dare forma ai sogni… È esperire una parte viva di noi, quella intima e nascosta che, comunque vada, mi appartiene. Prenderò un aereo? Sarò felice? Non so. So di sentirmi bene al solo pensiero di proiettarmi altrove: fosse pure uno di quei non luoghi della mente, quei luoghi immaginati dove tutto può accadere; lì non si accusa la stanchezza o l’infelicità, né la solitudine può mai raggiungermi. Non m’importa se avrò la capacità di arrivare fin sopra la cima di un monte invalicabile, e da lì spingermi in altri paesaggi inesplorati; o se tutto ciò svanirà non appena girerò l’angolo di questa via. È il mio sogno, si disse. Era talmente assorta nei sui pensieri che non si accorse di percorrere una strada diversa dalla sua usuale rue de Soufflot che l’avrebbe direttamente portata in Place du Pantheon. Lei, parigina doc, s’era smarrita nei suoi luoghi quotidiani per inseguire se stessa, un sogno, un nuovo e leggero alito di vento che la portasse altrove.

E ciò che poco prima sembrava essere privo di senso iniziò a rischiararsi proprio nel momento in cui si trovò, come per incanto, davanti alla porta di una storica libreria del Quartiere, posta in rue de l’Université. Per un attimo sostò sulla soglia della porta di legno scuro, di cui una metà era formata da una vetrata leggermente opaca. Si ricordò di aver già varcato quella soglia durante la notte. All’improvviso accusò una sensazione di paura che affievolì il suo immenso desiderio di partire: aveva paura dell’ignoto, di fare un salto nel buio prima di raggiungere la vetta. Non devo rinunciare, si disse mentre chiuse gli occhi. Pian piano lasciò fluire nel suo corpo, solo l’attesa di una imminente felicità. Non c’è posto per la tristezza, né per i ripensamenti. Indi, spinse in avanti il pomello di ottone della porta, mentre il trillo discreto del campanello segnò il suo arrivo. Il proprietario, che era concentrato a spuntare la lista di nuovi libri posti sul modesto e datato bancone, sollevò la testa; con lo sguardo che spuntava dagli occhialini da presbite fermati sul naso, le disse: «Sono subito da lei». Geraldine iniziò a gironzolare fra gli innumerevoli scaffali di legno, che sulle pareti arrivavano fino al soffitto. Come ogni individuo che si trova al cospetto di tanta saggezza, percepì il disagio di non conoscere nulla del suo mondo. Povera me! Ora leggo poco, giusto prima di addormentarmi. E come se non bastasse, la sera successiva, rileggo sempre le ultime due pagine prima di proseguire: sarà la stanchezza? Poca attenzione? Disabitudine? Non so. Comunque sia, ho bisogno di riappropriarmi della trama. Mentre era intenta a curiosare tra i libri di narrativa contemporanea, fu attratta da un grosso mappamondo posto in un angolo buio della libreria. Lo fece girare più volte intorno a se stesso dicendosi: Adesso conoscerò la mia destinazione. E puntando l’indice su quella sfera in movimento, ne rallentò la corsa. Ormai era fermo, e il suo dito indicava un luogo ben preciso: Mimì l’aspettava… Prima di uscire in tutta fretta dalla libreria, l’anziano e mesto proprietario si avvicinò a lei dicendole: «Le posso essere utile?» «No, grazie. Ha già fatto tanto per me», rispose. «Mi ha appena venduto un sogno: il mio». 

Mentre nel volto del proprietario si delineavano i chiari segni di una stupita interdizione, Geraldine uscì. Fece la strada a ritroso, affrettando il passo, fino ad imboccare rue Valette. Si vedeva già la Place du Pantheon e il palazzo monumentale del Mairie del V arrondissement e le sue superbe colonne poste all’ingresso principale. Quanto mi costerà questa rinascita?!, si disse mentre raggiungeva il suo ufficio. Si guardava intorno cercando di memorizzare ogni piccolo dettaglio di quei luoghi. E se poi mi mancheranno? E se mi mancherà anche il metodico Jean? Forza, Geraldine: non lasciarti prendere dallo sconforto, guarda avanti! Jean era il suo capoufficio. Era un omino di mezza età e possedeva l’arte della lentezza: sapeva che durante le ore lavorative giornaliere avrebbe potuto sbrigare comodamente non più di tre pratiche; per il resto… c’era Geraldine. Come suo padre, capoufficio prima di lui, portava i manicotti salvagiacca, quelli che indossavano gli impiegati postali di altri tempi. Tutto il suo essere era rétro: dal suo modo di parlare, intriso di vocaboli desueti, al suo modo di pettinarsi. E se si aggiunge la sua peculiare lentezza, era impossibile non credere di trovarsi di fronte a una statica figura di quelle che si ritrovano nelle vecchie foto in bianco e nero, capace di parlare grazie a un inatteso tocco di magia. Portava una lunga riga, geometricamente perfetta, che dalla nuca fino alla fronte divideva i suoi capelli neri, probabilmente tinti, mentre una riga di baffi appena accennati, sparsi sotto il suo naso adunco, metteva in risalto le sue labbra sottili. «Hai fatto tardi stamani?» disse appena Geraldine gli fu di fronte. «Oggi non lavoro, Jean. Sono qui per dare le dimissioni. Ti preparo la lettera e te la firmo» rispose mentre prese posto al suo computer. «Le dimissioni… la lettera? Che dici?», disse levandosi dalla sedia; poi, camminando nervosamente lungo il perimetro del suo ufficio, proseguì: «Perché piccola mia? Hai bevuto? Che cosa ti ha fatto sortire tale epifania? Rinunciare ad un posto di lavoro! Chi hai incontrato? Onassis è morto da che tempo! Pensaci bene». 

Le sue parole diedero lo spunto a Geraldine di rispondergli: «Ho una vecchia zia in Italia; si è ammalata e devo accudirla» «Allora prenditi le ferie», riprese. «Non durerà in eterno» «Non insistere, Jean, tanto è ricca e camperò di rendita. Ti farò sapere. Grazie di tutto, mon amie. Adieu» gli disse, lasciandogli la lettera firmata sulla scrivania. Appena a casa, tolse fuori dall’armadio un’enorme valigia nella quale infilò, oltre ai suoi vestiti, la sua bambola di porcellana, i cd di Edith Piaf e i libri di Simone de Beauvoir. Aveva deciso di cambiare la sua vita ma non voleva in alcun modo perdere quella parte del proprio io, densa di significati: la fanciullezza, la sua giovane età. Piegò i vestiti e li depose nella valigia mentre pensava che in un piccolo anfratto del suo cuore era ancora ben custodito il profumo della giovinezza. Perché finiscono gli entusiasmi d’allora?, si chiese Geraldine; e cercando di darsi una risposta, proseguì: Ci lasciamo invadere dalla fatica di un tempo che passa. E noi? Diventiamo come gli alberi in autunno: ci sono cose che si perdono e volano via, come le foglie gialle spinte dal vento e, insieme ad esse, svaniscono gli odori di un tempo. Eppure, a cercare in fondo, c’è dentro di noi una piantina sempreverde, un seme che attende di germogliare. Lì, proprio in quell’angolo nascosto della nostra anima, sono deposti i sogni, le nostre attese, le speranze… Ho una vita da vivere: voglio ricominciare da un sogno; da quell’alone di mistero che attende di essere svelato, si disse, chiudendo quell’enorme bagaglio. Lasciò fuori un vestito estivo: un tubino nero a giro maniche, completo di giacca, firmato Chanel, che lei acquistò in occasione del matrimonio di Clarisse, sua amica e vicina di casa, in una delle eleganti boutique di Place Vendôme. Era un abitino che Geraldine indossava solo nelle grandi occasioni: e questa sicuramente lo era. Si ritrovò in un baleno nel corridoio vestita di tutto punto. Prima di chiudere la porta, diede un ultimo sguardo alla sua casa. Il pianoforte a parete di suo padre, posto nel salotto, attirò la sua attenzione. Si rivide bambina, quando il padre, davanti a uno spartito, la seguiva mentre suonava e cantava la sua prima marcetta. 

Sperava che il tempo non avesse cancellato per sempre la sua musica. In un attimo poggiò sul pavimento la valigia e la sua piantina di cactus e si diresse verso il pianoforte. Prima di sedersi, incrociò le mani cercando di sgranchire le sue dita anchilosate e una volta sulla tastiera, quel vecchio suono gioioso ritornò ad echeggiare come un tempo: «Au clair de la luna / Mon ami Pierrot / Préte-moi ta plume / pour écrire un mot / Ma chandelle est morte / Je n’ai plus de feu / Ovre-moi ta porte / Pour l’amor de Dieu». Quando Clarisse aprì la porta, aveva ancora i bigodini in testa sorretti da una retina, mentre il suo corpo era avvolto da un’ampia vestaglietta di organza rosa, a mezze maniche. Anche le ciabattine con le piume erano in tinta. Vedendo Geraldine in ghingheri, le chiese: «Vai ad un matrimonio?» «Sì. Al mio», rispose. «Sta per accadermi qualcosa di bello; e ho bisogno di sfoderare tutto il mio charme». «Sei in partenza? Dove vai?» le chiese l’amica incuriosita. Il loro non era il solito rapporto di “buon vicinato”, ma si era solidificato nel tempo: oltre agli appartamenti attigui, condividevano, da brave coetanee, le loro problematiche. Avevano, infatti, l’abitudine di raccontarsi davanti a una bevanda calda e un vassoio di pasticcini, consumati, indifferentemente, in uno dei due appartamenti. Clarisse era una donna estrosa, solare, ironica: qualità che la inducevano a scorgere, in qualsiasi situazione, il lato “buffo” delle cose. Geraldine, invece, era l’esatto contrario, anche se l’allegria dimostrata dell’amica riusciva a contagiarla. I loro incontri sembravano essere dominati dagli opposti: erano diverse sia nell’aspetto che nel carattere. Lei, bionda con piccoli ma vivaci occhietti castani che le illuminavano il viso, scalfito da due mascelle ben delineate; come ben delineato e scultoreo era il suo corpo. Geraldine, invece, si poteva classificare fra le more per il colore dei suoi capelli e i suoi grandi occhi scuri, incastonati nel suo viso ovale. Era alta e magrissima e aveva il desiderio di ingrassare, ma metabolizzava ogni cosa e anche un bue fagocitato a pranzo non le permetteva di mettere su nemmeno un etto. Ciò suscitava l’invidia delle cicciottelle perennemente a dieta. 

Porgendole le chiavi di casa, Geraldine disse: «Sono in partenza per l’Italia. Prenditi cura del mio cactus e se puoi, di tanto in tanto, rinfrescami la casa» «Vai in Italia? A fare cosa? E ti sposi con chi? Ci siamo viste ieri e non mi hai detto nulla» rispose l’amica invitandola ad entrare. Geraldine trascinò la valigia con le rotelle fin dentro l’ingresso. Una volta seduta al tavolo della comoda cucina di Clarisse, disse: «Stanotte ho fatto un sogno: ho sognato che avrei incontrato l’uomo della mia vita» «In Italia?!», rispose l’altra, e proseguì: «Guardati intorno, Geraldine… Ci sono centinaia di uomini francesi che sarebbero felicissimi di accoppiarsi con te, e tu parti per l’Italia? E se poi trovi un rospo al posto del “principe azzurro”? Svegliati, Geraldine. Ho l’impressione che tu stia ancora dormendo! E, poi, che significa questo tuo “sta per accadere qualcosa”?! Penso che qualcosa sia già successo: qualcuno ti ha tirato un colpo in testa» «No, no… Stamattina si sono verificate le stesse cose successe nel sogno: il caffè, le strade percorse diverse dal solito tragitto, la libreria, il mappamondo… Non sono semplici coincidenze… È un sogno premonitore! Devo partire. Voglio che la mia vita si apra ad altre e altre ancora possibilità. Chissà… forse esisteranno altrove, in luoghi mai conosciuti… Non voglio perdermi in questa vita che sento non esser più la mia: in me cresce il desiderio di cogliere i segni di quell’aura misteriosa del mio sogno; lasciarmi avvolgere dalla magia del suo silenzio. Ecco cos’ho sognato: una serie di sequenze mute eppure dense di parole. È un sogno sì… ma ha invaso i miei pensieri. Ora aspetto solo di viverlo» «Che dirti, brutta pazza», le disse affettuosamente Clarisse, «spero che non pagherai a caro prezzo la follia di una notte. Ti auguro una buona fortuna. Mi mancherai, Geraldine. Abbi cura di te» «Anche tu mi mancherai», rispose l’altra, «Non ti preoccupare. Ti terrò costantemente informata». Cercarono entrambe di trattenere una lacrima già pronta a scivolare lungo il viso. Geraldine afferrò la sua valigia e appena in strada, fermò un taxi per raggiungere l’aeroporto d’Orly, lascian- 21 dosi alle spalle la Parigi del Lungosenna, dei bateau-mouches, degli Champs-Élysées, dei localetti di Saint-Germain, dove gli echi di una Francia existentialle, nel guardarli, rivivono ancora nell’immaginario collettivo dei turisti.

* * * 

UN RACCONTO SOTTO L'ALBERO di Marcella Vivacqua - Falco Editore -

Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

Condividi su:

Seguici su Facebook