BIOGRAFIA AUTORE
Stefano Ferri è un pubblicitario e giornalista, titolare di una società di comunicazione e marketing. Ha fondato e diretto per quattro anni un'importante rivista di turismo congressuale. Ha ottenuto svariati riconoscimenti, tra cui quello di miglior giornalista italiano per la stampa specializzata in turismo e il Premio Hilton per il giornalismo di settore.
Con il saggio Ecoeventi (Lupetti - editori di comunicazione, 2009), scritto con due colleghe, ha vinto nel 2010 il Premio Turismo Responsabile Italiano.
Seppellitemi in cielo è il suo esordio nella narrativa.
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PRESENTAZIONE
Patrizia Mondell, rampolla di una ricca famiglia, viene trovata morta suicida nell'abitacolo della sua auto. L'ispettore Giorgio Bonomi, prima di chiudere l'inchiesta di prassi, tenta di decifrare il messaggio, "Seppellitemi in cielo", che la ragazza ha lasciato accanto a sé. Un penoso colloquio col padre di Patrizia e il successivo esame dei diario diranno solo che la ragazza era appassionata di astrofisica e ancora innamorata dell'ex fidanzato Luca Giordani.
Bonomi convoca in questura Luca, ma questi non riesce a far luce sul biglietto. Al termine dell'interrogatorio Luca si reca da un amico, Davide Rompani, e lo mette a parte di ciò che è emerso in commissariato.
Quando gli cita il testo del messaggio, Davide viene folgorato da un ricordo capace di chiarirgliene il significato, e svela che Patrizia, negli ultimi mesi di vita, aveva mostrato interesse per un'agenzia di Houston (Texas) specializzata nello spedire in orbita le ceneri dei morti. Questo sarà soltanto l'inizio di una misteriosa e straordinaria serie di scoperte...
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Buona lettura...
I Capitolo
Quando la trovarono era morta da poco. Giaceva sul fianco sinistro, il viso coperto dai capelli biondi e un braccio abbandonato verso l’autoradio ancora accesa. Patrizia Mondelli, 22 anni, studentessa in giurisprudenza e figlia di uno dei più facoltosi industriali della regione, era deceduta in seguito alle esalazioni del gas di scarico della pro- pria vettura.
Il pomeriggio precedente era uscita di casa dicendo alla madre che sarebbe andata in città a fare spese. La sera, non vedendola rientrare, i genitori avevano messo in allarme la polizia: temevano un incidente, o addirittura un sequestro. Esclusa tuttavia l’ipotesi di una fuga e ingiustificata quella dell’imprudenza (difficile che una ventenne con la testa sulle spalle scappi di casa o ceda alle lusinghe degli sconosciuti), persino l’eventualità di un rapimento, a mente fredda, risultava invero- simile. La strada che univa la villa al centro del paese – la più probabile meta di una ragazza in vena di shopping – era tra le più trafficate e sorvegliate dell’area. Portare a termine un colpo di qualsiasi genere, oltretutto all’affollatissima ora di chiusura degli uffici, avrebbe dato problemi anche all’uomo invisibile.
Da mezzanotte in poi pertanto, una volta scattata la denuncia di scomparsa, polizia e carabinieri avevano iniziato a pattugliare la zona con scarsa lena, convinti che all’origine di tutto ci fosse un’innocua bugia: che Patrizia, in città non avesse neppure pensato di andare, e che il passatempo di quel pomeriggio, lontano dall’avere a che fare con acquisti o con altri sollazzi da civiltà dei consumi, avesse come minimo richiesto la presenza di un’altra persona. Di sesso maschile.
Patrizia era al volante della sua automobile, un’utilitaria di colore blu di cui fu reso noto il numero di targa. Indossava una camicetta bianca, una gonna e un paio di scarpe di tela. Questi dati, insieme alla foto segnaletica, contrassegnarono l’intera notte delle ricerche prima che l’alba – l’alba del primo giorno d’estate – svelasse la verità.
***
Qualcuno aveva notato una macchina ai bordi di un viale sterrato senza case né vita. Una macchina dal motore acceso e dagli interni velati di fumo. Un’utilitaria blu che i rari passanti avevano sin lì aggirato senza guardare. Fu così, con la fredda prassi dei ritrovamenti di routine, che dopo una sola notte d’attesa crollarono le speranze della famiglia e le illazioni dei poliziotti.
Patrizia era morta all’altezza del chilometro 4 della provinciale, a metà di un sentiero dimenticato da Dio che conduceva a qualche casolare e a niente altro. I dettagli svelarono un suicidio preparato con agghiacciante metodicità. La giovane aveva perlustrato il territorio sino a trovare la stradina più nascosta. Obiettivo arduo da cogliere, data l’intensità del traffico, e tuttavia sufficiente a spiegare – con lugubre senno del poi – le frequenti uscite di casa degli ultimi tempi. Quindi, lo stesso giorno della fine (nella borsetta aveva gli scontrini fiscali), si era recata in un negozio di articoli per il giardinaggio e aveva acquistato il tubo di plastica per collegare lo scappamento all’interno del veicolo. Un acquisto calcolato anche nei modi: il colore dell’attrezzo era di un blu molto simile a quello della carrozzeria, quasi a volerne mimetizzare le sinuosità agli occhi di quanti vi fossero transitati accanto. Dopo aveva comprato lo scotch, di cui a fianco dell’auto fu ritrovato l’involucro, e lo aveva usato per chiudere gli infissi a finestrini, porte e aperture per l’aerazione. Infine, trasformata la macchina in una tomba, aveva acceso il motore ed era spirata sulle note di una compilation registrata in casa. Ecco che cosa può fare una ragazza giovane, educata, molto carina e ricca quanto basta per non dover lavorare un giorno in tutta la vita, quando esce dicendo di volersi comperare un vestito.
La zona rimase isolata per diverse ore. Curiosi e giornalisti furono tenuti alla larga da un cordone di vigili e di sbarramenti a nastro. Nessuno poteva avvicinarsi, di lavoro ce n’era anche troppo. I particolari emergevano di minuto in minuto. Il più sconcertante era l’orario del decesso, calcolato tra le quattro e le quattro e mezza di quel mattino. Patrizia era morta ben undici ore dopo aver salutato la madre sulla soglia della villa. Un dato tanto importante quanto difficile da far quadrare. Gli scontrini dimostravano che alle sette e un quarto era in possesso di tubo e scotch, e sempre a quell’ora doveva verosimilmente già conoscere il luogo in cui dar seguito all’azione. Così equipaggiata, e più che consapevole della meta da raggiungere, aveva invece impiegato tutta la sera e quasi tutta la notte per compiere il passo estremo.
Paura? Sì. Paura di morire, logico. Il terrore che ti coglie quando tutto è pronto per la tua fine, e sai che gli unici passi che ti restano da compiere sono quelli che ti separano dal nulla. Il terrore di una ragazza che si sente condannata da chissà quale forza alla tenebra perpetua. E che allora non ci sta, si ribella, preme l’acceleratore e si avvia per la provincia in una fuga disperata e solitaria. Che urla di non voler morire, che vorrebbe tornare a casa, che vorrebbe riabbracciare mamma e papà e chiedere loro perdono, e che al contrario si ostina a precipitare nell’abisso.
“Ma ha senso che una suicida si comporti così?”
Giorgio Bonomi aveva appena acceso il motore della macchina di Patrizia e stava guardando l’indicatore del carburante quando pose al vento questa domanda. Al vento. La persona più vicina, l’assistente Tommaso Federici, gli stava a trenta metri, insieme agli agenti che riponevano il corpo della ragazza nella lettiga. Bonomi era sicuro che nessuno lo avrebbe sentito, e tutto sommato poco gli importava. Di quell’indagine non gli importava niente. Di niente gli importava niente. Aveva trentotto anni, troppi per un ispettore di polizia voglioso di carriera e costretto a inseguire una povera morta nelle spire della sua follia. Oddio, follia...
Il Bonomi era sin troppo radicale. Per lui il bianco era bianco e il nero era nero. Aveva letto che il carattere è il destino di ogni uomo, e si era convinto che il senso dei trasferimenti cui i comandi lo costringevano stesse proprio lì. Scarsa integrazione nel gruppo, recitavano le note caratteristiche. In termini più prosaici, i colleghi lo detestavano. Anche se era bravo. Ma l’invidia è una brutta bestia, si sa.
Nella fattispecie, qual era il problema? Che quel mattino, quando Federici lo aveva tirato giù dal letto annunciandogli il suicidio della Mondelli, lui era sbottato: “Non contar palle, che non si è uccisa!” Il povero scudiero – lui sì adatto a stare in gruppo – si era limitato a sospirare, ma era anche parso divertito, e adesso l’ispettore, davanti a quella macchina tutta “scocciata” dall’interno, capiva il senso della sua ironia. Federici l’auto l’aveva già vista, ed evidentemente attendeva il superiore al varco dell’indimostrabile: ossia del tentativo di provare che qualcuno potesse prendere una morta, salire con lei in macchina, avvolgere l’abitacolo col nastro adesivo e quindi... uscire dal buco della serratura.
Alcuni giorni prima, parlando proprio della morte da suicidio, Bonomi gli aveva detto di non credere affatto che i suicidi fossero folli all’ultimo stadio. Li riteneva invece lucidi quanto basta per decidere di sopperire con una morte probatoria a una vita senza scampo. Anzi, aveva aggiunto: dato che gli individui sono soliti scaricare sugli altri le responsabilità dei propri fallimenti, il suicidio è in genere un mezzo per castigare indirettamente una o più persone – genitori, parenti, amici – e costringerle a vivere il resto dei loro giorni in preda ai sensi di colpa peggiori del mondo.
La teoria aveva affascinato Federici (Bonomi sarà stato scontroso, ma quando parlava lo ascol- tavano anche le pietre), pur non convincendolo del tutto. Aveva spiegato che per rispondere a questo sistema mentale i suicidi dovrebbero richiedere un grado di maturità improponibile nei quattordicenni dei cui voli dal sesto piano dopo un quattro in pagella le cronache sono prodighe di esempi. Per non parlare di quella vita “senza scampo” che tutt’al più può spiegare la fine di un sessantenne e non certo quella di un giovane nel fiore degli anni e delle speranze. Alla fine avevano concordato che era meglio tornare a discutere di calcio.
Quel mattino, ahiloro, non c’era calcio che tenesse. La morta era lì, gli occhi sgranati e la pelle ormai biancastra, a reclamare l’attenzione di tutti. Con successo, aveva pensato un Bonomi sempre più svogliato, cui i superiori, invece che la ricerca di criminali, affidavano un caso per il quale nessuno sarebbe finito in galera. Il che era assai triste per uno che di mestiere faceva l’acchiappa banditi.
Con successo, pensava. E cercava di filtrare quel suicidio attraverso il tornasole delle proprie convinzioni. Che di suicidio si trattasse era chiaro, inutile pensarla altrimenti. Al telefono con Federici si era sbagliato (e chissà quante volte si era sbagliato in dieci anni di litigi con i colleghi, ma quella era un’altra questione). Patrizia si era proprio uccisa. Lo aveva fatto con metodo, disciplina, persino intelligenza. Dal punto di vista dell’esecuzione, la sua morte rifletteva in pieno il Bonomi-pensiero: aveva seguito un piano preciso, ave- va scelto un’arma che non dava scappatoie, era riuscita a catalizzare gli sguardi della polizia, dei curiosi e di lì a poco anche dei cittadini tutti. Non gradiva l’anonimato, la povera fanciulla.
A non trovare spiegazione erano invece le nove ore di tour per la provincia o per la regione. La spia della riserva dimostrava che un vagabondaggio c’era stato, e anche piuttosto lungo: il padre della sventurata ricordava di aver fatto il pieno di benzina poco prima che la figlia sparisse. Proprio l’abbondante distanza percorsa (centinaia di chilometri) rendeva irrealistica l’idea di un viaggio con una meta precisa: quand’anche ne avesse raggiunta una, la giovane non avrebbe avuto neppure un minuto per trattenervisi, essendosi appurato che alle quattro del mattino era tornata alla base. Per quale ragione, dunque, una ragazza così intestarditasi a morire si era fatta cogliere da quella prolungata voglia di paesaggi notturni?
“Che cos’hai deciso?” gli chiese Federici sbucandogli alle spalle.
Bonomi lo guardò seccato. Non aveva voglia di domande. Per lo meno, non di altre domande. “Che dovresti levarti di torno,” sbuffò alzandosi e scrollandosi i calzoni di lana fuori stagione.
“Sei più scocciato tu di quest’automobile,” insisté Federici. “E sono solo le sei del mattino.”
“Nessuno ha mai porto l’altra guancia quando viene svegliato prima dell’alba e sul tavolo della colazione trova il cadavere di una ventiduenne,” ribatté Bonomi. “Ti ricordi il discorso dell’altro giorno?”
“Quello dei suicidi?” “Sì. Ti pare che questo quadri?” “Con le tue idee?” “No, con quelle di Mago Merlino.” Federici alzò le spalle e si appoggiò alla carrozzeria blu. Accarezzò con gli occhi l’orizzonte lisciandosi l’ampia pelata con una mano. Per quello che dava a vedere, sembrava anche meno entusiasta di lui. “Non lo so,” mormorò poi. “Lucida era lucida. Resta da capire perché l’ha fatto.”
Bonomi si accese una sigaretta. La terza della giornata (alle sei del mattino). “Bisognerà parlare coi suoi... E comunque non credo che sia importante.”
Si mise a passeggiare avanti e indietro a testa bassa. Sentiva lo sguardo di Federici premergli addosso ma fece finta di niente. Scarsa integrazione nel gruppo, o come diavolo si chiamava la sua malattia. Malattia. Eran due ore che quel povero ragazzo, neodiplomato all’accademia, stava lavorando per lui e più di lui, eppure poco c’era mancato che come ricompensa gli toccasse un italico invito ad andare sappiamo dove. Solo un malato di nervi può prodursi in queste facezie. Anni prima, in circostanze analoghe, un collega lo aveva fissato sprezzante e gli aveva risposto per le rime. Sei un frustrato, gli aveva detto. Mica male. La classica parolina da usare ogni volta che si vuole pungolare una persona con stile anglosassone. Federici no. Non ne aveva il coraggio. Era troppo sensibile. E Bonomi sentiva che, “risolto” quel caso, sarebbe giunto il tempo di farsi da parte e lasciar spazio a lui. Frustrato, sì. Era un frustrato, mondo cane. Quel collega aveva ragione. “Quando mi hai chiamato non pensavo che si fosse uccisa,” sospirò guardando il fumo levarsi dal mozzicone. “Cioè... più che altro speravo che ci fosse dell’altro.”
Osservò Federici sorridergli dietro le gote paffute. “Qualcuno doveva pure occuparsene, ti pare?”
“No, non mi pare,” borbottò scuotendo la testa. “Però così è.”
Si sbarazzò della sigaretta e, mani in tasca, iniziò a girovagare tra la macchina e la lettiga di Patrizia. Tentava di ragionare. Di tanto in tanto alzava gli occhi, ora verso la morta, ora verso l’automobile. Ecco, l’automobile. Ci si soffermò a lungo. Il pensiero della fuga notturna lo ossessionava. “Come ti spieghi quelle nove ore?”
“Quali?” “Quelle tra l’ultimo acquisto e il suicidio.” “Il giro per la provincia.” “Proprio.” “Ma perché ti interessa tanto?” L’ispettore posò lo sguardo sulla precoce pelata dell’assistente. Trovava che, se erano vere le storie sulla fronte spaziosa, il suo fosse un volto segnato dall’intelligenza. E che da una calotta cranica così compatta ci si dovesse attendere ben altre espressioni di vivacità. “Perché non lo trovo logico,” disse.
“Per via che chi si ammazza sarebbe risoluto eccetera?”
“Sì.”
“Ma insomma!” si irritò Federici. “Vuoi lasciare in pace la gente almeno quando muore?”
“Cioè?”
“Cioè che questa era stufa ed è uscita dalla porta di servizio. Senza chiedere il permesso ai tuoi teoremi.”
“Bravo. Adesso rispondi alla mia domanda.”
Federici allargò le braccia, vinto dall’ostinazione. “Non lo so, Giorgio. Non lo so.”
“Hai una soluzione per tutto, vedo.” “Se ne avessi, non lavorerei con te.” Bonomi accusò il colpo. Non era quella la sua mattina, se mai ce n’era stata una.
“Non prendertela,” sorrise Federici.
L’ispettore non lo ascoltava. Mani sempre in tasca, mosse alcuni passi verso il cadavere. Lo aveva già visto, ricavandone un discreto pugno sullo stomaco. Pensò che fosse il caso di riesaminarlo. Se la ragazza fosse stata viva, una domandina su quelle nove ore non gliel’avrebbe tolta nessuno. Da morta, non c’era meglio del suo corpo per trovare una specie di risposta.
“Devono portarla via!” gli urlò Federici come per esortarlo a spicciarsi.
Fatti venire in mente una soluzione e io potrò risparmiarmi lo spettacolo, idiota!, pensò Bonomi mentre il lenzuolo dell’istituto di medicina legale restituiva l’ultimo pallore di Patrizia. Quelli che erano stati i capelli, e che già avevano assunto la consistenza di spaghetti filamentosi, lambivano un viso fisso su una smorfia atterrita, cui i contorni cianotici si attagliavano come una mano di fondotinta per un appuntamento col demonio. Le labbra erano stirate in una posa innaturale, quasi in un’invocazione cui la morte aveva tolto fiato e ragione d’essere. Le guance, il collo, e ancora le braccia e il petto iniziavano a raggrinzirsi nel rigore cadaverico. Non potevano svelare nulla più che orrore, dolore e panico.
“Perché ti sei uccisa?” bofonchiò Bonomi fra sé.
La vecchia massima dei denti e del pane gli sembrava la più adatta a descrivere la situazione. Milioni di sfortunati costretti a sbarcare il lunario fra angherie e sacrifici si sarebbero scambiati a scatola chiusa con quella figlia di papà, tirandosi dietro con giubilo le sue capricciose depressioni da viziata. E invece in quel momento, da lassù (o da laggiù, pare che Dio non sia tenero con chi pretende di sostituirsi a Lui in certe decisioni), Patrizia stava forse scrutando gli angoli peggiori della terra alla ricerca di un poveraccio nelle cui sembianze trascorrere un’altra vita.
Che strana cosa, il suicidio. Un desiderio assurdo, in contrasto con tutti gli istinti di sopravvi- venza, che lui, Bonomi Giorgio, non era riuscito a condividere nemmeno un minuto nella sua intera esistenza. E sì che quelle trentotto primavere così restie a ingrigirgli l’attaccatura dei capelli non erano state avare né di delusioni né di calci negli stinchi.
“Allora? Che vuoi che facciamo?” sbucò ancora Federici, chiaramente ansioso di levare le tende.
“Tra poco ce ne andremo,” rispose Bonomi riportato alla realtà. In fondo anche lui aveva vo- glia di cambiare aria. “Se almeno avesse lasciato qualcosa di scritto...”
“Ah, ma guarda che un messaggio c’era,” sorrise Federici.
L’ispettore, a sentire quella notizia, ma soprattutto quel tono, così privo d’imbarazzi malgrado l’incredibile ritardo nell’annuncio, si sentì rabbrividire per la rabbia. “Che cosa?” urlò infilando le pupille in quelle del povero assistente. “CHE COSAAA?”
“Un messaggio, Giorgio,” rispose Federici a voce bassa e tremula, scattando all’indietro per lo spavento. “Non te l’avevo ancora detto perché...”
“PERCHÉ SEI UN CRETINO, ECCO PERCHÉ,” lo aggredì Bonomi, ormai senza freni. Poi si volse intorno, e negli sguardi che incontrava, peraltro tutti puntati su di lui, cercò virtuali complici per la sua ramanzina. “Dico, spiegatemi voi come cazzo si fa!, come cazzo si fa ad arrivare su un suicidio quand’è notte e tirare fuori il messaggio del morto, IL MESSAGGIO DEL MORTO, LA-COSA-PIÙ-IMPORTANTE, QUANDO ANCORA UN PO’ ED È SERA!”
A Federici intanto la paura era passata. O forse l’aveva ancora, poco importa, fatto sta che aveva assunto l’espressione di chi va al contrattacco. Era la lite. “Non ti permettere di apostrofarmi a quel modo!” gli gridò di rimando. “Sei il mio superiore e puoi insegnarmi il mestiere, ma mi devi rispetto e soprattutto aiuto. Ti chiedi come si fa a tenersi certi segreti. Ma sono io, mio caro, sono IO a domandarmi come si possa giungere su un suicidio a lavoro bell’e fatto senza chiedere un cazzo all’assistente e anzi allontanandolo in malo modo mentre porta questa!”
E così dicendo, anzi urlando, estrasse dalla giacca una busta trasparente con dentro un foglio bianco. Il messaggio.
L’ispettore rammentava la scena citata da Federici. Appena dopo il suo arrivo, mentre si recava alla macchina di Patrizia, l’assistente gli si era fatto incontro, e lui lo aveva mandato a quel paese con un ampio gesto della mano, senza una parola. Federici sapeva bene che non bisognava insistere, quando l’approccio dava quegli esiti.
Bonomi aveva poi fatto in tempo a pentirsi del suo comportamento, ma non aveva chiesto scusa, impegnato com’era ad andare dietro ad altri pensieri. Ora gli si offriva l’opportunità di rimediare. “Sì, lo so che ti ho mandato via,” ammise. “Ma poi di occasioni per parlarmi ne hai avute eccome. Come mai hai continuato a non dirmi nulla?”
“Ti vedevo tutto preso dalle tue riflessioni,” insisté Federici, più calmo pur se ancora stizzito, “e so, perché me l’hai detto tu, che non è il caso di interromperle. Dopodiché non ho fatto che rispondere alle tue domande. Il messaggio me lo tenevo qui, questione di minuti e sapevo che me ne avresti chiesto. Tanto, guarda...” concluse porgendoglielo, “...è inutile. Ti sfido a capirci qualcosa.”
L’ispettore glielo strappò di mano. “Qui sono io a dare giudizi,” commentò insistendo a osservare la piccola folla di colleghi che proseguiva a degnarlo d’attenzione. “Dov’era sistemato?”
“Sopra il cruscotto.” “E perché dici che non ci si capisce niente?” “Perché è delirante.” “Nessuno va in delirio quando si uccide...”, borbottò Bonomi. Anche se nove ore sono troppe per morire, rimuginò subito aprendo la plastica e afferrando il reperto.
Si trattava di un foglio protocollo a quadretti, scritto in inchiostro nero senza segni di sbavatura. L’impressione era che la ragazza avesse programmato di scrivere molto più che un semplice messaggio, forse una lettera, e che qualcosa (la penna difettosa? la paura di morire? la stessa morte?) l’avesse indotta a una sintesi estrema e inopportuna. Qualche frase in più e davvero per la polizia ci sarebbe stato molto meno da fare.
“Solo questo?” chiese, quasi d’istinto. “Sì.” Le tre parole sopravvissute al suicidio, scritte
belle in grande, come ad assicurarsi che qualcuno le notasse, servivano solo ad aggiungere mistero al mistero. Il rude ispettore pensò che chi scrive una cosa del genere deve avere un’anima in grado di volare.
Di volare lontano. “Che ne dici?” chiese Federici. Bonomi non rispose. Qualche recesso del cervello gli suggerì che a dare la notizia ai genitori avrebbe dovuto pensare lui.
SEPPELLITEMI IN CIELO
Patrizia
II Capitolo
La casa era di quelle che si vedono solo nei film in cui ci sono più limousine che attori. Protetta da un cancello automatico con guardiola, cinta da un parco di almeno cinque ettari, villa Mondelli era una vecchia dimora nobiliare cui una serie di interventi architettonici conferiva un aspetto attuale. Aveva una piscina asimmetrica semina-scosta da una corona di aceri, i muri esterni in marmo lucido, i vetri spessi alle finestre. Era alta due piani, lunga una trentina di metri e profonda una ventina. La sormontava un tetto spiovente che avrebbe accolto tre o quattro attici da città.
Nel giro di ventiquattr’ore Bonomi la visitò due volte. La prima fu poco dopo il ritrovamento del corpo di Patrizia, quando ne annunciò la morte ai genitori e dovette far fronte a una delle più strazianti reazioni cui il suo mestiere gli avesse dato la sventura di assistere. La madre gli cadde ai piedi impallidendo di schianto e balbettando per tre volte il nome della figlia prima di svenire; il padre, un uomo gentile il cui viso in quelle ore ispirava più pena che solidarietà, scoppiò in un pianto dirotto che, misteri della mente, riuscì a interrompersi soltanto davanti al lettino d’obitorio su cui Patrizia attendeva di essere riconosciuta.
La seconda volta fu il giorno seguente, allorché la discreta presenza di un sacerdote e una mezza boccetta di tranquillanti avevano reso i signori Mondelli più idonei (o meglio, meno inidonei) a un interrogatorio di polizia, almeno sulla carta. L’appuntamento era stato fissato per il dopo pranzo, così da dare ai medici legali il tempo di concludere l’autopsia e di comunicarne i prevedibili esiti.
Percorrendo in auto quel viale privato fra due ali di cicale gracchianti e sotto un sole sonnac- chioso, Bonomi ebbe modo di riflettere su di sé, e persino di vergognarsi. Malgrado la tragedia che si era abbattuta su quella famiglia, e nonostante l’atmosfera plumbea che di lì a chissà quando avrebbe avvolto quella casa, ancora riusciva a provare invidia verso le ricchezze che vi si ostentavano. Pur tentando di dominarsi, non poteva fare a meno di immaginare Patrizia sdraiata ai bordi della piscina e coccolata da legioni di maschi bramosi di dote. E per contrasto pensava a se stesso, chiuso nella polvere di un ufficio di periferia, inquilino di un piccolo appartamento in cui passava le domeniche a leggere, a sbadigliare e a far quadrare conti che non superavano mai il livello di sussistenza. Abbagli stereotipati, banali frutti di una frustrazione incapace di porsi limiti anche di fronte alla morte: a una morte che era stata attesa, voluta e forse accolta come si accoglie un liberatore.
Liberatore... I denti e il pane, mormorava l’ispettore mentre si aggirava tra i quadri e le por- cellane del salotto. I denti e il pane, continuava a pensare mentre si concentrava su
Patrizia e su quella terribile istantanea dall’aldilà che sembrava il suo corpo sotto le luci dell’autopsia.
Era confuso, Bonomi. Nei panni di quei due genitori si sarebbe sentito defraudato prima che disperato. Ma come ti permetti?, avrebbe chiesto alla suicida. Come ti permetti di preferire una tomba a questo po’ di casa? La morte a una vita che ancora dovevi iniziare a vivere? Sì, forse Federici aveva ragione. Di nuovo aveva visto giusto lui. Ma quali undici ore: queste erano le domande da porre a quella sciagurata. Che importanza aveva uno stupido giro per la provincia di fronte a un addio così privo di scrupoli?
A parte lo scarno verbale che aveva portato con sé, gli eventi non erano chiari neppure a lui. Di sicuro c’era il suicidio di una ventiduenne patrizia di nome e di fatto. Il resto, buio. Buie le motivazioni, il vagabondaggio, quel messaggio che sembrava uscito da una messa nera. Buio anche l’atteggiamento che Bonomi scopriva di avere assunto: un rigore investigativo che non lo avrebbe portato a concludere niente se non l’ovvietà. Patrizia si era uccisa. Suicidata. Inutile inseguire colpevoli se non ne esistono.
Arrivò solo il padre, l’ingegner Amilcare. Quando gli avevano detto che la madre era ancora sotto sedativo, Bonomi aveva provato più sollievo che sorpresa. Nelle condizioni in cui l’aveva lasciata non avrebbe potuto che piangere e sussurrare invano il nome della figlia.
“Buongiorno, ispettore,” mormorò l’ingegnere tendendo la mano all’ospite.
I due incrociarono gli sguardi per pochi attimi, prima che Mondelli abbassasse il suo. Quel volto colpì Bonomi non meno della reazione della moglie il giorno addietro: e non tanto per le rughe, che sembravano raddoppiate ma magari era questione di luci, quanto per il pallore che gli aveva invaso la faccia accostandola orribilmente a quella di Patrizia.
“Buongiorno, ingegnere.”
Bonomi combatteva tra il senso del dovere e un’esplosiva voglia di darsela a gambe e non tornare. Quanto stava avvenendo era tutto sbagliato: era sbagliata la morte di Patrizia, sbagliata la tortura che il suo interrogatorio avrebbe imposto a quell’uomo, sbagliata la pennellata di tenebra che il diavolo stava stendendo ovunque con acida pazienza. Sbagliate pure le banalità che uscivano di bocca a lui. Buongiorno. Che cavolo di “buono” poteva ormai avere, quello e tutti i giorni che sarebbero venuti?
“Si accomodi.”
L’ispettore si sedette di fronte a Mondelli sui divani al centro della stanza. Da quella posizione, su una scrivania proprio oltre una piccola rientranza del muro, il volto allegro di Patrizia lo sbirciava da un ritratto in cornice. E a Bonomi non dispiacque affatto. Aveva voglia di veder sorridere. “Mi hanno comunicato il risultato dell’autopsia...” iniziò, quasi sottovoce.
Mondelli tradì un fremito dietro il volto scavato.
“Non ci sono state sorprese. È tutto come avevamo previsto ieri.”
Difficile e ingrato, il compito di ufficializzare a un padre il suicidio della figlia. Anche se, come in quel caso, è una notizia attesa e in fondo irrilevante, contiene la più cocente attestazione di fallimento che si possa presentare a un uomo. Tua figlia ha mandato a quel paese te, tua moglie e tutti gli altri, questo era il senso che ne usciva, perché non avete fatto nulla-ma-proprio-nulla di quanto dovevate fare. In quell’attimo, oltre a comunicargli la sua disfatta come padre, Bonomi colpiva l’interlocutore con un pugnale invisibile e devastante.
“C’è dell’altro?” chiese quello che restava di Mondelli.
Dell’altro. Si sarebbe potuto andare avanti a parlare per un minuto come per un anno, a seconda che si volesse processare la suicida o calarsi nei suoi ultimi pensieri. L’ispettore aveva in tasca il malefico foglietto testamentario, e anch’esso gli dava difficoltà. Dopo tanta pena, era forse giusto svelare a quel genitore che l’estremo grido di Patrizia non era stato né per lui né per la famiglia? “Sì, ingegnere,” farfugliò tentando di prenderla larga.
“Prego.”
Mondelli non si muoveva. Le labbra incorniciavano le sue parole mentre il viso restava statuario. Era come se la voce gli salisse da un microfono nascosto nella gola.
“Avrei bisogno che mi parlasse di sua figlia.” “Di mia figlia?” “Sì purtroppo. So che non le sarà facile.” L’ingegnere stese lo sguardo sul tavolino di fronte. Vi indugiò come se tra i riflessi del cristallo emergesse il viso di Patrizia e lui potesse prenderla, sistemarsela sulle ginocchia e coccolarsela come quand’era bambina. Anche Bonomi alzò gli occhi sino a incrociare il ritratto sulla scrivania, quasi si fosse lasciato pure lui solleticare da un improvviso richiamo della ragazza. A volte i morti si fanno sentire più dei vivi. “Patrizia...” riprese Mondelli. Poi emise un lieve sospiro, quasi a contenere nuove lacrime, e domandò: “Perché me lo chiede?”
Non lo so neanch’io. “Perché...” indugiò, “...vede, dovrei capire quali motivi l’hanno spinta a... a fare quello che ha fatto.” Mai esagerare con le parole.
Mondelli rifletté brevemente prima di rispondere. “I motivi...” balbettò. “Non so, forse bisognerebbe risalire di qualche mese, o di un anno.”
Ah, allora qualcosa c’è, si rincuorò Bonomi, che già temeva di aver sprecato un pomeriggio.
“Sì, di un anno,” proseguì Mondelli. “Era da un anno che Patrizia non era più lei.”
Bonomi tornò con la memoria al verbale. Si parlava di una specie di storia d’amore finita male giusto un anno prima. Mentre lo leggeva aveva dovuto contenersi per non chiamare Federici (che il verbale l’aveva steso) e fargli l’ennesima lavata di capo. Trovava assurdo che una ragazza di quel ceto, di quell’età e di quella bellezza decidesse di respirare un quarto d’ora di gas di scarico solo perché un bellimbusto qualsiasi aveva tolto il disturbo, e dava appunto la colpa all’assistente per essersi intrattenuto su fatti tanto secondari senza approfondire piste verosimili. Reputava, per esempio, di poter curiosare a piacere tra le pecche della famiglia: genitori oppressivi, vita blindata tra guardie del corpo e rischi di sequestri, un avvenire predestinato dietro la scrivania di papà... Reggeva tutto questo con il luogo comune della sedotta e abbandonata?
“Mia figlia si era... come dire, ripiegata su se stessa,” continuava intanto Mondelli. “In pochi mesi aveva perso tutto l’entusiasmo con cui era vissuta. Io e mia moglie naturalmente notammo la cosa e cercammo di parlarle, ma è difficile che i ragazzi si confidino con i genitori, specie se c’è di mezzo l’amore.”
Amore, eh? Queste parole non spostarono di un millimetro gli scetticismi dell’ispettore. Anzi, li approfondirono: una persona che parla della figlia suicida non può essere del tutto lucida. Entrano in gioco troppe cose: il tormento, l’incapacità di rassegnarsi. E il rifiuto di accettare le responsabilità.
“L’inizio di questa storia risale a cinque anni fa,” seguitò Mondelli. “Alla quarta classe del liceo Patrizia si innamorò di Luca, un compagno di classe. Era la sua prima esperienza. L’unica. Il rapporto andò avanti sino alla maturità diciamo semiclandestino, anche se osservando certe stranezze, come quando usciva di casa senza un motivo apparente o cambiava umore da un momento all’altro, si capiva subito che cosa era accaduto.
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SEPPELLITEMI IN CIELO di Stefano Ferri - Robin Edizioni -
Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.