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The Martian

La sopravvivenza del cinema all'alba dei new media

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Penso che The Martian-Sopravvissuto sia il primo film che non abbia fatto inorridire la comunità scientifica.

La sua perizia descrittiva, merito dell’omonimo testo letterario, ha creato più post della Nasa su Marte e possibili sbarchi planetari nei vari social, che persone di cinema concordi nell’essere un capolavoro. Da bravo scolaretto, mi attengo alla definizione di un grande maestro che riteneva un capolavoro quel film “irrespirabile”, definendo quello in esame respirabilissimo.

Completo è completo: il libro non ha permesso strafalcioni di sceneggiatura che ultimamente colpiscono Ridley Scott e collaboratori; la regia è lineare e ben illustrativa; gli effetti speciali non sono pesanti; gli effetti di suspance e sorpresa sono buoni ma per difetti di tecnica tutto rimane molto leggero, digeribile.

Non mi riferisco al finale, né alla sanissima ironia dei personaggi, bensì ad un effetto di spersonalizzazione implicito nella costruzione filmica. The Martian-Sopravvisuto è la storia di un astronauta di nome Mark Watney (Matt Demon), che viene accidentalmente lasciato su Marte da parte del suo equipaggio durante una tempesta. La sua unica via d’uscita da quest’odissea è la razionalizzazione dello spirito di sopravvivenza e l’applicazione delle conoscenze scientifiche che possiede.

Quindi, in qualità di spettatori abbiamo sufficienti elementi per emozionarci, se non fosse che nelle scene e negli establishing shot (inquadrature di paesaggi che precedono l’azione, atte a segnalare dove i pg si trovano) il ritmo è lento, blando, quasi fossimo su una nave spaziale. Dunque spezzante. Abbiamo tutto il tempo per abituarci a quel che succede e non esserne troppo coinvolti.

In queste inquadrature il nostro sguardo non corrisponde ad alcun elemento che sia presente nell’azione. Escludendo qualche soggettiva dei personaggi, il più delle volte potremmo chiederci chi sta guardando l’azione.

In questo modo, i veri marziani siamo noi spettatori. Intendiamoci, non ho nulla in contrario con questa tipologia di ripresa, già da tempo utilizzata nel cinema postmoderno, ma storco il naso, anzi l’occhio, se non vi è alcuna finalità narrativa all’operazione.

Rimanendo su Ridley Scott prendo come esempio Alien, il cui processo esposto, aumentava nello spettatore il senso che occhi estranei stessero osservando la scena oltre a quelli della creatura nascosta, con un’accentuazione dell’inquietudine che si poteva provare negli attimi di fiato sospeso.

Una bella differenza, che avrebbe potuto rendere questo film “irrespirabile”. Nell’essere respirabile però, ci sono molti pregi come quello di non essere la solita roba americana, ma un film godibilissimo.

A proposito di “solita roba americana”: a stupire sono le scene in cui sono presenti le relazioni professionali tra l’ente spaziale americano e quello cinese. Perché, sebbene la realtà sia molto diversa, questa parte della narrazione svela come il cinema sia tutt’ora reputato un linguaggio in grado di sensibilizzare e svolgere funzioni diplomatiche nell’immaginario collettivo. O almeno, così crede ancora Hollywood spiazzandoci.

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