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"PEFYKA. CRONACHE DI UN RICERCATO" DI DENISE TORTORA

Vanai Lart, apparentemente unico mezzosangue rimasto su Pefyka, nutre la vendetta verso il mondo intero che intende portare avanti alimentando una feroce guerra fra razze

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BIOGRAFIA AUTRICE

Denise Tortora, nata nel 1989 e residente in una piccola cittadina nei pressi di Monza, ha l’insolita caratteristica di riuscire a esprimersi appieno, svuotarsi di ogni negatività e sfogarsi di tutte le avversità solamente tramite la scrittura. Con una sfrenata passione per la letteratura, sin dall’infanzia mette per iscritto pensieri ed emozioni nei suoi racconti e nelle sue poesie. Si è appassionata al genere fantasy grazie a Joanne K. Rowling, Terry Brooks e Licia Troisi così, con l’intento di mettersi in gioco, si è cimentata nella stesura del suo primo romanzo: Pefyka. Cronache di un ricercato.

PRESENTAZIONE

Vanai Lart, apparentemente unico mezzosangue rimasto su Pefyka, nutre la vendetta verso il mondo intero che intende portare avanti alimentando una feroce guerra fra razze. La sua esistenza è costellata da solitudine e odio, e neanche l’incontro con Siloas, un ingenuo ragazzino imbranato, riesce a distoglierlo dal suo intento. Tuttavia, il giovane sembra avere uno strano effetto sul ricercato che, per la prima volta in vita sua, prova sentimenti di affetto. Col tempo, quel sentimento diventa ossessione.  Ma Vanai non ha la minima intenzione di ammettere, né con se stesso né tanto meno con Siloas, la sua “debolezza”. La loro vita da ricercati non sarà per nulla facile, messa di continuo a rischio dalle autorità, fermamente intenzionate a giustiziarli. Saranno perciò costretti a separarsi e architettare fughe rocambolesche per ottenere la libertà. Il sentimento più puro è il vero protagonista, dove l’unico interesse è la sopravvivenza dell’altro.

Pefyka. Cronache di un ricercato, potrebbe essere definito un romanzo “al contrario”, in quanto vede i cattivi essere al centro della narrazione e i buoni come antagonisti di fondo.

L’ambientazione è un ipotetico futuro in cui la razza umana è estinta: Pefyka, un mondo simil-medioevale popolato da cinque razze, la cui pace è assicurata dalle Alte Cariche Elfiche.

La narrazione è scorrevole, con un linguaggio semplice e diretto. Tuttavia le conversazioni appaiono forti e, talvolta, quasi scurrili. Tale scelta è obbligata dalla natura rozza e spesso rude dei personaggi, nonché dal forte odio che caratterizza i rapporti fra protagonisti e antagonisti. Alcuni passaggi, inoltre, possono risultare crudi o addirittura impressionanti. In vista di questo, il romanzo è rivolto in prevalenza a un pubblico maturo.

Un pubblico che sappia aprire la mente e andare oltre le apparenze, poiché non tutti saranno in grado di capire il delicato rapporto fra Siloas e Vanai. Il lettore deve abbandonare la normale concezione di amore, e concentrarsi unicamente sul suo vero significato. Sperando che non sia andato perso. 


Buona lettura...

PEFYKA. CRONACHE DI UN RICERCATO

Prologo

Era solo un bambino di appena sei anni dai capelli neri e una faccia d’angelo, con gli occhi di un verde intenso. Era mattino presto ed era ancora sdraiato sul letto. Un raggio di sole stava facendo capolino dalla finestra. Sentiva la conversazione dei genitori in cucina, probabilmente stavano facendo colazione. Parlavano a bassa voce per non svegliarlo.

Si alzò, si stiracchiò e li raggiunse. Appena entrò, entrambi lo salutarono con un bacio sulla guancia. Gli volevano molto bene. Prese la tazza coi cereali e, mentre mangiava, il sole si alzò sopra la collina sulla quale abitavano fino a inondare la cucina con la sua calda luce. Era una bella giornata. Non vedeva l’ora di andare a fare il pic-nic in mezzo alle foreste. Si vestì tutto eccitato, mentre i suoi genitori già lo aspettavano sul vialetto. Allora si catapultò fuori dalla sua stanza per raggiungerli. Stava per aprire la porta d’ingresso quando sentì un urlo.

«Non uscire, Vanai! Nasconditi» gli gridò sua madre.

Il bambino esitò un istante. Poi decise di guardare dallo spioncino della porta cosa stesse accadendo. Si pentì subito di quello che aveva fatto, ma era troppo tardi. Rimase attaccato con l’occhio allo spioncino, costretto dal terrore ad assistere a quello spettacolo orribile. I suoi genitori erano circondati da una dozzina di trolls delle montagne che li stavano massacrando con le loro clave puntellate da spuntoni di ferro. Alcuni trolls delle pianure assistevano alla scena senza muovere un dito, anzi sembravano quasi soddisfatti. Il bambino non poté fare altro che assistere a quel massacro, bloccato dalla paura e dall’orrore. I suoi genitori continuavano a urlare, le loro grida strazianti penetravano nelle sue orecchie come aghi. Non voleva sentirle più, non voleva più assistere a quello spettacolo, ma le gambe non riuscivano a muoversi. I corpi dei genitori si dilaniavano sempre più e il suo cuore si riempiva di strazio e di odio verso quegli assassini. Piangeva silenziosamente e la disperazione prese il sopravvento su di lui.

“Perché?”, si chiedeva, senza trovare risposta. “Perché ci stanno facendo tutto questo? Cosa abbiamo fatto?”.

Per lui erano solo degli spietati assassini che stavano trucidando sotto i suoi occhi innocenti le uniche persone che avesse mai amato. Le sue gambe ripresero a muoversi solo quando i trolls delle montagne si diressero verso la casa. Verso di lui.

Con le lacrime che gli inondavano gli occhi, corse a più non posso verso un posto sicuro, che non trovò. Sentiva i passi dei trolls dietro di lui e non sapeva dove nascondersi. Sopraffatto dall’angoscia, con il cuore impazzito nel petto e coprendosi con mani tremanti la bocca, tentando di non emettere alcun suono, si accucciò dentro lo sportello della dispensa, sperando con tutto se stesso che non lo trovassero. I trolls, fortunatamente, non cercarono nemmeno in quelli che potessero essere dei nascondigli: non erano così intelligenti.

Una di quelle spaventose clave passò davanti al suo nascondiglio all’altezza della sua vista. Il bambino la vide piena di sangue, con ancora dei lembi di carne attaccati agli spuntoni di ferro. Riuscì a stento a trattenere un urlo di disperazione.

Vanai Lart si svegliò gridando, tutto sudato.

«Ancora quel maledetto incubo!» ansimò affannato e confuso.

Faceva quel sogno ormai da anni. Vanai aveva da poco superato i trentacinque anni, aveva gli stessi occhi verdi di un tempo, ma molto più freddi e pieni di rancore. Il suo volto era duro e spigoloso, come se fosse stato scolpito nella roccia. Si alzò dal giaciglio e bevve qualcosa per calmarsi.

Arrivava quasi a due metri d’altezza, la corporatura robusta e muscolosa solcata da cicatrici, testimonianze tangibili di una vita poco raccomandabile. Raccolti in una coda, aveva lunghi capelli neri che, col passare degli anni, erano diventati secchi e lo rendevano ancora più selvaggio. La sua vita non gli piaceva per niente, ma in fondo perché sforzarsi di renderla migliore quando ogni tentativo sarebbe stato vano?

Per le sue professioni, era in perenne fuga dall’A.C.E. – le Alte Cariche Elfiche, il cui compito era debellare da Pefyka ogni minaccia alla pace e tranquillità – e non aveva amici per il suo stato di sangue. Non poteva fidarsi di nessuno e tutti lo evitavano come la peste. I cacciatori di taglie e, soprattutto, i soldati dell’A.C.E. gli erano costantemente alle costole. I primi per impossessarsi della taglia che le autorità avevano messo su di lui – ben quindicimila galem – mentre gli altri agivano, a loro detta, per giustizia. La sua vita non avrebbe fatto invidia a nessuno, lui stesso la detestava.

Vanai Lart era un mercenario, un assassino e un commerciante d’armi. Era conosciuto in tutta Pefyka come il “mezzosangue che alimenta la guerra”. Il suo mestiere era vendere armi e a lui non importava a chi le vendesse, se ai “buoni” o ai “cattivi”. Lo stesso valeva per i lavori da mercenario e killer che eseguiva dietro laute ricompense. Per lui erano tutti uguali, tutti una feccia. Non faceva differenza che fossero trolls delle pianure, trolls delle montagne, orchi delle caverne, gnomi delle foreste o elfi. Nessuno aveva mosso un dito quando i suoi genitori erano stati massacrati. Erano rimasti lì i buoni trolls delle pianure, a guardare la scena soddisfatti. Odiava tutte le razze e non sentiva di appartenere a nessuna.

S’intendeva meglio solo con i trolls delle montagne e gli orchi, ma solo per gli affari. Non aveva legami d’affetto con nessuno, nessuno avrebbe voluto come amico un mezzosangue. I suoi genitori erano stati uccisi proprio per quello, per la diversità. Suo padre, Cink Lart, era un troll delle pianure; mentre sua madre, Nikar Vurt, era una troll delle montagne. Erano due persone molto diverse. Lei aveva un carattere forte e deciso; al contrario, suo padre era timido e insicuro. Anche il loro aspetto era opposto. Sua madre era molto alta e imponente, con occhi e capelli nerissimi; il padre invece era bassino e tozzo, capelli castano chiaro e occhi verde acceso. L’unica cosa che avevano in comune era il loro grande cuore. Riuscivano a dare amore a chiunque fosse in grado di riceverlo. Ben poche persone.

La loro unione e il loro amore erano stati ritenuti illegali. Per un’unica volta, i trolls delle pianure e quelli delle montagne, avevano trovato un accordo: ucciderli per il loro amore impossibile.

Diventato adulto, Vanai capì perché avesse sempre vissuto sulle colline, nella terra di nessuno. Non erano mai stati accettati né da una razza, né tantomeno dall’altra. Nemmeno gli gnomi delle foreste erano stati disposti a ospitarli nel loro territorio e i suoi genitori non avevano minimamente preso in considerazione di andare a vivere insieme agli orchi delle caverne. Di conseguenza, erano stati costretti a ritirarsi sulle colline, in una vita solitaria. Fu anche per quello che non ebbe amici per tutta la sua infanzia, gli animali e i genitori furono i suoi unici affetti. Crescendo, si era reso conto che anche il suo aspetto non lo aiutava. Era una via di mezzo tra i due genitori, non aveva nessuna peculiarità delle due razze. Era un ibrido che tendeva ad assomigliare a un essere umano.

Gli umani, da sempre odiati in tutta Pefyka, avevano quasi portato il Vecchio Mondo alla distruzione; la loro brama di potere e avidità avevano rischiato di distruggerlo. Gli umani si erano estinti, ma il mondo era riuscito a salvarsi, anche se la sua conformazione geografica aveva subito un radicale cambiamento. Il Consiglio delle Razze si era quindi riunito, decretando che il nome Terra non fosse più appropriato per quel mondo. Dopo lunghe ricerche, lo avevano infine rinominato Pefyka, che in una lingua morta significava “essere per la natura”. Avendo visto a cos’aveva portato la brama di conquista dell’essere umano, il Consiglio delle Razze aveva deciso che quel nuovo mondo si sarebbe prodigato per la salvaguardia della natura e non per la sua distruzione.

Passati tre secoli dalla fine del Vecchio Mondo e quindi dalla nascita di Pefyka, i trolls delle montagne, alleati con gli orchi delle caverne, avevano dichiarato guerra ai trolls delle pianure e ai loro alleati, gli gnomi delle foreste, per una questione territoriale. Secondo i trolls delle montagne, infatti, i nemici avevano occupato una delle loro zone, mentre gli altri negavano, sostenendo che quelle zone già gli appartenessero. Gli animi si erano subito scaldati, acuendo il rancore e un insensato odio fra le razze. Solamente gli elfi, tramite l’A.C.E., avevano strenuamente cercato di porvi fine, senza alcun successo.

Quella guerra andava avanti da sedici anni, durante i quali erano stati saccheggiati villaggi, incendiati boschi e foreste, distrutte caverne e montagne, causando migliaia di morti da entrambe le parti. Ma nessuno, o quasi, ormai ricordava più il motivo scatenante. Solamente dopo tre secoli, Pefyka e i suoi abitanti infransero il giuramento fatto durante il Consiglio delle Razze.

Vanai Lart era molto più simile a un umano che a qualsiasi altra razza di Pefyka, per questo viaggiava sempre incappucciato. Non voleva far vedere il suo aspetto. Pochi conoscevano il suo volto, solo i compratori più anziani (e anche quelli lo avevano visto per caso). Era già emarginato per i suoi affari e le cose non sarebbero certamente migliorate se tutta Pefyka lo avesse visto in volto. Grazie al suo lavoro, aveva girato gran parte del mondo, ma non aveva mai incontrato qualcuno come lui. Per quanto ne sapeva, era l’unico mezzosangue esistente, e ciò non migliorava le cose.

I CAPITOLO

CARICO

Stava albeggiando oltre le foreste quando Vanai Lart uscì dalla tenda un po’ scosso dal sogno. Le tenebre avvolgevano ancora la radura in cui si era accampato per la notte: era autunno inoltrato e le giornate cominciavano ad accorciarsi. L’alba si vedeva solo verso le sette del mattino e il tramonto aveva inizio già alle sei del pomeriggio.

Da quella radura, le foreste si estendevano per almeno un paio di chilometri in tutte le direzioni. Vanai conosceva le foreste – soprattutto quella del Kyaneos – come le sue tasche, erano il suo rifugio. Qualcuno sapeva che si nascondeva lì, ma quei territori erano vastissimi e nel raro caso in cui lo avessero trovato, non ne sarebbero usciti vivi. Vanai Lart era un ottimo combattente, e uccidere non gli aveva mai dato problemi.

Il mercenario controllò l’orologio. Le sei e mezzo. Doveva muoversi, alle nove doveva incontrarsi con un potenziale cliente in una caverna a sud delle foreste.

Viaggiava con la sola compagnia delle armi, della tenda e del suo furgoncino. Ogni notte imboscava quest’ultimo a qualche chilometro da lui: almeno, se anche fossero riusciti a catturarlo, il mezzo sarebbe stato al sicuro. Di conseguenza, prima di recarsi alla caverna, lo avrebbe dovuto recuperare. Smontò quindi la tenda e s’incamminò nel folto della vegetazione.

La foresta del Kyaneos era fitta, con alberi alti che permettevano a pochi raggi di sole di penetrare al suo interno. Anche in pieno giorno, era difficile vedere oltre un paio di metri di distanza. A renderne più complicata la traversata, vi erano i cespugli e gli animali che la popolavano: tanti e molto pericolosi. Vanai comunque sapeva come difendersi da ogni tipo di creatura.

Il mercenario camminava a passo accelerato: era in ritardo. L’incubo gli aveva fatto perdere la cognizione del tempo, si era fermato fin troppo a ricordare il passato. A ritmo costante, riuscì a raggiungere il furgoncino in meno di un’ora. Era totalmente ricoperto dal fogliame per evitare che qualcuno lo vedesse, dunque Vanai lo liberò dalla sua protezione. Pian piano comparve un Volkswagen transporter T2, meglio conosciuto come “Bulli”. Quello era l’unico mezzo di trasporto meccanico ancora in circolazione, gli aveva apportato parecchie modifiche migliorandone prestazioni e aspetto. Era il suo gioiello, la sua creatura.

Quando lo vide per la prima volta, gli sembrò un rottame con le ruote. Nonostante la comprensibile riluttanza, decise di prenderlo. Gli serviva un mezzo di trasporto che contenesse tutta la sua merce e quello scassone era l’unico furgoncino sulla faccia del pianeta.

Aveva cambiato idea nei suoi confronti in seguito a svariate ricerche. Dopo aver scoperto che col suo motore poteva andare praticamente ovunque e dopo aver saputo chi furono i suoi principali proprietari del Vecchio Mondo, aveva iniziato ad apprezzarlo. I transporter, negli anni ’60/’70 del Vecchio Mondo, avevano spopolato tra gli appartenenti a una corrente chiamata hippy. Una moda passeggera che ebbe molti sostenitori, ma ideali totalmente differenti dai suoi. Si fondava sulla pace e sull’amore, cose a cui lui aveva rinunciato fin da bambino. Il punto d’unione era l’isolamento: gli hippy erano stati emarginati nel loro mondo e, nonostante fossero in molti, non avevano un posto nella loro epoca, disprezzati e allontanati per il loro stile di vita spesso discutibile. Proprio come lui. Emarginato, disprezzato e temuto nel suo mondo.

Scoperta la storia che ebbe nel Vecchio Mondo, Vanai aveva provato un sentimento simile all’affetto verso quel mezzo di trasporto. Un sentimento che non era mai riuscito a provare per nessuna delle cinque razze. Il veicolo emergeva dal fogliame, sgargiante: era inadeguato per un ricercato e un fuggitivo, ma a lui piaceva così. In ogni caso, rimaneva l’unico furgoncino esistente e questo lo rendeva immediatamente rintracciabile.

Happy – come lo aveva battezzato – all’esterno era verniciato di rosso porpora. Davanti, sotto il parabrezza, vi era dipinto l’enorme muso di un drago, con la bocca spalancata e due file di denti affilati. Le ali, invece, si spiegavano sulle fiancate, in tutta la loro imponenza. Il disegno era nero e assomigliava a un gigantesco drago che si stagliava su un cielo di sangue. Simboleggiava la sua rabbia: un enorme cacciatore alato che non lasciava scampo alle sue vittime.

All’interno aveva lasciato solo i sedili anteriori. Il retro, invece, era stato rifornito di vari mobiletti al di sotto dei finestrini, dove sistemava la merce piccola – pistole, pugnali, bombe e quant’altro – e di un cucinotto che gli garantiva pasti caldi e decenti ogni tanto. In due contenitori metallici metteva la merce grossa: lancia fiamme, fucili, mitragliatrici. Il resto dello spazio rimaneva libero per esporre il carico ai compratori. Anche l’interno era dipinto di rosso e nero. I sedili erano rivestiti di pelle nera e rossa, con un piccolo drago bianco disegnato sul poggiatesta. La mobilia era nera e ogni pezzo aveva impresso lo stesso drago che dominava anche, colorato di nero, sul pavimento rosso.

Dopo aver scoperto totalmente Happy dal fogliame che lo intrappolava, Vanai ci salì sopra e mise in moto. Il motore rombò e il furgoncino s’incamminò su un piccolo sentiero che li avrebbe portati fuori dalle foreste. Il mercenario controllò nuovamente l’orologio: le sette e mezza. Gli rimaneva un’ora e mezza per arrivare in orario all’appuntamento col cliente. Si era tranquillizzato. Con la sua andatura, aveva rimediato al ritardo.

Una volta fuori dalla foresta del Kyaneos, iniziò una strada sterrata. A quell’ora non avrebbe incontrato nessuno perché nei villaggi che avrebbe attraversato tutti ancora dormivano. Solo i contadini si alzavano prima dell’alba.

Durante il viaggio, ascoltò la musica del Vecchio Mondo: audiocassette e Cd. Quel tipo di musica non aveva niente a che fare con quello che suonavano su Pefyka. Il suo preferito era un Cd molto vecchio, anche se, data l’usura, non si riuscivano a leggere né il titolo né l’autore. Non sapeva niente sul suo conto, ma gli piaceva per il ritmo e il senso di onnipotenza che riusciva a trasmettergli.

Arrivò al luogo dell’incontro addirittura in anticipo, così, una volta sceso dal furgoncino, si mise a sistemare la merce. Non era del tutto convinto che quel cliente avrebbe comprato qualcosa, era uno nuovo. Lo aveva contattato attraverso un cliente abituale e poi aveva accordato luogo e ora tramite le ricetrasmittenti opportunamente modificate per avere un campo d’azione maggiore.

Dopo una decina di minuti, all’ingresso della caverna comparve uno gnomo, il mercenario allora si calò bene il cappuccio sul volto. Rimase un attimo perplesso dall’aspetto del compratore: magrolino, ricurvo su se stesso e con un’aria nervosa. A Vanai non importava il suo aspetto, aveva imparato a non giudicare mai una persona dall’apparenza. L’importante era che comprasse qualcosa.

Negli ultimi tempi, gli affari stavano andando male, colpa dell’A.C.E. che non gli dava un attimo di tregua. Fortunatamente, nelle ultime settimane le acque si erano un po’ calmate e aveva potuto fare rifornimento, riuscendo a prendere contatti con qualche cliente.

«Bene, dov’è la merce?», chiese lo gnomo con voce tremante. «Voglio concludere il più presto possibile»

«Non ci vorrà molto. Anche io voglio concludere in fretta», replicò Vanai con la sua voce rude, potente e glaciale. «Non si sa mai chi c’è in ascolto».

Lo gnomo ebbe un piccolo sussulto, che non sfuggì al mercante d’armi. Gli lanciò un’occhiata sospettosa, ma lo condusse comunque al furgoncino.

«Cosa ti serve, qualcosa di leggero o di pesante?» chiese, per accelerare l’operazione.

«Ehm… sì, io… io volevo… qualcosa di piccolo, che si possa nascondere facilmente».

Vanai lo guardò sempre più sospettoso. Tutta quell’incertezza non gli piaceva.

«Senti, gnomo, non ho tempo da perdere! Vuoi comprare qualcosa o no?!»

«Sì, sì, certo che voglio. Ecco…».

Lo gnomo guardò con attenzione il carico esposto.

Scrutò ogni oggetto come se si trattasse di qualcosa di altamente nocivo. A Vanai quell’individuo non piaceva per niente, troppo insicuro. Aveva anche un brutto presentimento. Non vedeva l’ora di concludere l’affare per allontanarsi da quel posto.

«Sì, ecco, vorrei… vorrei quella p-pistola. Quanto costa?».

Il mercenario la prese e gliela mostrò.

«È una pistola piccola, poco adatta a un adulto. È più indicata per i ragazzi e le donne. Sei sicuro di voler questa?» domandò scettico.

Il compratore sembrò spaventato da quella diagnosi, come se avesse sbagliato qualcosa. No, quell’affare a Vanai non piaceva per niente. Più il tempo passava, meno si sentiva tranquillo.

«Ah… sì, ehm, voglio questa», rispose quello con un filo di voce. «Allora, quanto costa?»

«Milleduecento galem».

Un prezzo spropositato. Dubitava che l’altro ci cascasse, ma non si poteva mai sapere.

«Bene, sì… la prendo» fece lo gnomo, con un mezzo sorriso.

C’era cascato. Ma cosa passava per la testa a quell’individuo? Poco importava, a lui sarebbero entrati in tasca molti più galem del previsto. Lo gnomo infilò la mano nella tasca interna della giacca per prendere il denaro. Fu una mossa sbagliata: per mezzo secondo, lo vide. Un filo nero si arrampicava fino al colletto dello gnomo.

Vanai lo prese per il bavero e lo sbatté con forza contro la parete rocciosa. Gli aprì la giacca e strappò via il microfono nascosto.

«Chi cazzo sei?!» gli chiese, fumante di rabbia.

Una trappola! Era finito in una maledettissima trappola! Ma chi era? L’A.C.E. o qualche cacciatore di taglie? Poco importava. Quella caverna aveva una sola uscita e di sicuro non sarebbe stata sguarnita.

Lo gnomo, sbiancato, non riuscì a proferire parola. Sicuramente quello non era un soldato. Il mercenario estrasse il pugnale dalla cintura, puntandoglielo al collo.

«Allora, chi sei? Per chi lavori?»

«No, no! Ti prego, non mi uccidere!».

Le lacrime cominciarono a scendere lungo le guance dello gnomo. Quello non fece che innervosire di più Vanai. Gli premette la lama contro la gola, facendogli uscire un rivolo di sangue.

«Non mi hai ancora risposto, pezzo di merda! Chi ti ha mandato?».

Doveva muoversi a uscire da lì, però prima doveva sapere se avrebbe fronteggiato un cacciatore di taglie o i soldati dell’A.C.E. Quell’informazione poteva determinare la sua salvezza o la sua cattura.

«Non lo so! Davvero non lo so! Mi hanno pagato e mi hanno detto di fare quello che mi dicevano! Non mi uccidere!».

Vanai non replicò, si limitò a fare più pressione sul pugnale, incidendo la gola dello gnomo.

«Era un elfo, era un elfo! Ti prego!» confessò infine.

Allentò la presa, facendo sospirare l’altro di sollievo.

«Merda!» imprecò sottovoce.

Rivolse un ultimo sguardo allo gnomo e, con un unico gesto fluido, gli recise la carotide. Il corpo senza vita scivolò lungo la parete rocciosa, per poi crollare al suolo. Se lo aveva contattato un elfo, doveva trattarsi dell’A.C.E. Per quel che ne sapeva, non esistevano elfi cacciatori di taglie, erano troppo pomposi per abbassarsi a tanto.

L’A.C.E. faceva le cose per bene, nel corso degli anni avevano imparato a non sottovalutarlo. Davanti alla cavità, vi era una piccola radura, superata la quale cominciavano le foreste, che si estendevano da entrambi i lati della strada. Come previsto, non erano in pochi. Almeno venti soldati, nelle loro divise verde scuro, con spalliere, cintura e stivali neri, circondavano l’entrata della caverna, seminascosti tra gli alberi. Sicuramente avevano capito che il loro contatto era morto, anzi probabilmente lo avevano mandato a morire. A loro era servito solo qualcuno che lo tenesse occupato mentre organizzavano l’attacco.

Era in trappola insieme a Happy. Se lo prendevano, non sarebbe stato un problema, sarebbe potuto scappare in un secondo momento, come già aveva fatto in passato; ma se mettevano le mani su Happy, sarebbe stata la fine, la fine dei suoi affari. Per prima cosa, quindi, doveva trovare una sistemazione al suo furgoncino. Si guardò intorno. La caverna era abbastanza ampia, ma nessun nascondiglio.

«Lart, è inutile opporre resistenza, non hai scampo! Sei in trappola!», gridò una voce dall’esterno. «Esci fuori con le mani alzate!».

Era vero, era in trappola, ma non per quello si sarebbe arreso. Ne avrebbe accoppati quanti più possibile di quei bastardi. Sarebbe uscito, quello sì, ma non da solo. Si precipitò al furgoncino: tirò fuori due cariche di dinamite e un bazooka, appese alla cintura i pugnali e un paio di bombe a mano, e per finire si mise il suo fidato fucile a tracolla. Non avrebbero messo le mani su Happy, non glielo avrebbe permesso. Lo avrebbe chiuso nella caverna e, una volta che le acque si fossero calmate, sarebbe andato a riprenderlo. Posizionò dunque le cariche di dinamite ai lati dell’entrata della caverna, si mise in ginocchio a pochi passi dell’uscita con il bazooka in spalla, mirò alla sua sinistra, cercando di prendere più soldati possibile, e infine sparò. Appena il colpo andò a segno, azionò le cariche di dinamite.

Uscì di corsa, lanciando le bombe a mano: una a destra e una di fronte a sé. Ma quelli erano solo diversivi, i nemici erano tanti e ben preparati, infatti passarono all’attacco. I suoi diversivi, comunque, avevano avuto l’effetto sperato, ne aveva eliminati un bel po’ e aveva ancora l’esplosione della cavità dalla sua. I militari lo attaccavano da ogni direzione. Molti proiettili lo presero di striscio, mentre altri riuscì a pararli facendosi scudo con altri elfi. Pochi secondi dopo, le cariche di dinamite esplosero: la valanga che causarono chiuse l’ingresso della caverna, e schiacciò qualche soldato. Inoltre, l’onda d’urto lo scaraventò in avanti, aiutandolo a liberarsi dalla presa di due soldati e dandogli la possibilità di scappare. Non ne rimanevano molti, una decina, ma la situazione non era delle migliori. Aveva parecchie ferite e un proiettile nel braccio sinistro. Corse verso le foreste, la sua unica possibilità di fuga.

«Non lasciatelo scappare! Prendetelo!» gridò un soldato alle sue spalle.

Altri due gli si pararono davanti: senza esitazioni, li fece fuori con dei colpi di fucile; un terzo arrivò alla sua destra, e fulmineo gli recise la carotide con un pugnale.

“Ce la posso fare!”, pensò.

Si guardò alle spalle, facendo un rapido calcolo degli inseguitori. Per ogni evenienza, appurò anche quante pallottole gli fossero rimaste. Solamente un colpo e avrebbe potuto fare affidamento solo sui pugnali.

«Non lasciate che si inoltri nelle foreste! è il suo territorio! Dobbiamo prenderlo!».

Vanai controllò se fosse riuscito a distanziarli. No, gli erano ancora alle calcagna, erano davvero tenaci. All’improvviso, un soldato gli piombò addosso da dietro, atterrandolo.

«Ti ho preso, bastardo» ghignò soddisfatto.

«Tu dici?» replicò il mercenario, sparandogli l’ultimo colpo di fucile in fronte.

Il cranio del militare si aprì e il sangue gli schizzò in faccia, coprendogli la visuale. Si rimise in piedi e riprese a correre, pulendosi faccia e occhi. Il suo volto era quasi totalmente libero dal denso liquido rosso quando inciampò su un masso. Subito i sei soldati rimasti gli furono addosso, bloccandolo a terra. Il mercenario cercò di divincolarsi, ma fu tutto inutile. Gli tolsero la cintura, e gli ammanettarono mani e piedi.

«Non vai più da nessuna parte, Lart! I tuoi giorni sono finiti!».

Lo misero infine in piedi e tornarono sulla strada principale, dove li attendeva un carro. Lo caricarono e si avviarono spediti verso la più vicina base dell’A.C.E. 


"PEFYKA. CRONACHE DI UN RICERCATO" DI DENISE TORTORA - FALCO EDITORE

Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

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