LA COMUNITA’ FONDATA SUL SOGNO
Visitare Dahab significa passeggiare per i pilastri di una comunità fondata da sognatori. Il turista usuale potrebbe aver bisogno di un piccolo indizio per puntare la sua sensibilità sulle persone straordinarie che si nascondono dietro ogni attività e dietro ogni accogliente spiaggia, terrazza, angolazione. Potrebbe essere interessante cercare tra la folla il tedesco che a forza di girovagare per il Sinai ha assunto tratti da arabo e veste da sufi, il nordico pensionato che da un decennio si diletta a scegliere con amore la musica giusta per il ristorantino sulla spiaggia, la brasiliana che compone borsette di paillettes per sopravvivere nell’oasi dei suoi sogni, la danese che dipinge su qualunque materiale trasformando anno dopo anno la cittadina sotto il suo stile, la donna scura reclutata dal deserto per disegnare tatuaggi di henna sui corpi dei visitatori. E ancora l’austriaco che trasforma ogni porta di strada e di casa in un quadro, l’africano rasta che qui porta le sue manifatture e le pelli di tamburo, la cinese che ti vende dolcetti egiziani e la russa che esporta i piatti del suo Paese verso il palato di chi ancora non li conosce. La famigliola bulgara che zitta zitta ha aperto un bell’albergo verso il faro. La portoghese che sorride ininterrottamente contagiando tutti, come a dirti: qui abbiamo dato il via all’epidemia della gioia. L’orgoglio che ne consegue è sulla faccia di tutte queste persone più o meno in ombra che da tutto il mondo, da quindici anni a questa parte, si sono ritrovate qui a costituire questa famiglia a sorpresa, accomunate da un’innegabile poesia nel cuore. Qui hanno trovato la vera incarnazione del paese dei loro sogni, la terra promessa di ogni bambino, la sezione caraibica di ogni sogno esotico. Per questo Dahab fa sentire ogni passante a casa, come se già la conoscesse. Perché in maniera subliminale Dahab tira per i capelli il sogno, facendo risvegliare il bambino, il poeta e il pittore, il nomade e il sognatore di ogni turista curioso.
Forse, dopo tempo, il ritorno alle nostre città e a quel che di civile vi troviamo farà in modo che questi elementi di noi si riaddormentino. Ma il germe dell’epidemia della gioia non si scorda, il tarlo del sorriso perenne resta acceso dentro la memoria di chi ha respirato questo vento di Sinai e questo alito di libertà corporea e creativa. E forse, a distanza di mesi o di anni, a sorpresa emergerà come un flash l’istante astratto della bimba beduina seduta a intrecciare braccialetti sulla bassa marea. L’ombra evasiva del professore francese trasformatosi qui in modesto e soddisfatto pescatore. O l’intrecciarsi dei canti sacri da dentro le botteghe odorose di frutta nella mattina sonnolenta. E allora si saprà con certezza che Dahab rimane dentro, e che l’impronta che credevamo di aver lasciato sulla sabbia ramata della laguna è invece l’impronta che ci ha lasciato lei, dentro le fibre più profonde del corpo liberato, laddove la naturalezza del camminare scalzi confina con un volo dello spirito irrimediabilmente liberato dagli schemi della nostra civiltà . Sulla frontiera della polvere. Sull’orlo della sfrontatezza dei colori.
(Sonia Serravalli)