BIOGRAFIA AUTORE
Massimo Lanzaro, nato a Napoli classe '71, medico, psichiatra e psicoterapeuta è stato Primario al Royal Free Hospital di Londra e Direttore Sanitario in Italia e in Inghilterra. E' membro dell’International Association for Jungian Studies e attualmente scrive sulle riviste B-liminal (UK), N9ve, sulla C.G. Jung Page (US), sul Blog di Gabriele La Porta e collabora regolarmente con il quotidiano online "Il Quorum".
Complessivamente è autore di più di 20 articoli pubblicati su riviste scientifiche nazionali ed internazionali, di oltre 100 scritti che analizzano il cinema, l'arte, la letteratura e la poesia con approccio psico-sociologico e dell'ebook "Nel punto atomico dove scompare il tempo. Saggi di psicologia" (2013). Nel 2014 è uscito il suo volume “DSM Cinema. I film che spiegano la psiche”.
Alcuni articoli e/o interventi si possono reperire ai seguenti links:
http://www.ilquorum.it/author/massimo-lanzaro/
http://gabrielelaporta.wordpress.com/tag/dr-massimo-lanzaro/
http://www.cgjungpage.org/learn/articles/culture-and-psyche/882-reflections-on-duchamp-quantum-physics-and-mysterium-coniunctionis
https://www.youtube.com/watch?v=ZpkMTeNsLyA
PRESENTAZIONE
Massimo Lanzaro, ha appena pubblicato la raccolta di saggi “Dsm-Cinema. I film che spiegano la psiche”. Il titolo del libro gioca sulle parole del “Dsm-V”, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che è stato pubblicato in Italia di recente.
“L’idea del libro – racconta il dottor Lanzaro - mi è venuta in mente alla conferenza stampa di un film, in cui il regista raccontava la sua opera mentre a me era sembrato di aver visto, per così dire, praticamente tutt’altro! Ho pensato che in effetti la stessa narrazione potesse essere inquadrata con una chiave di lettura differente e magari completamente ignota al regista ma comunque “psicologica”.
Mi ispiro ai criteri diagnostici del Dsm, che si dice dovrebbero essere usati con cautela in clinica, non certo come ‘una bibbia’, quindi con ancor più cautela quando si usano per rispecchiare il cinema. Insomma le mie riflessioni vanno intese cum grano salis”.
“Cinepsicorecensione” è il tentativo di fornire una chiave di lettura filmica che non sia necessariamente interpretativa (e complicata), come quella ancora in voga tra alcuni freudiani, lacaniani, post-freudiani etc. Ad un primo livello provo ad analizzare se possibile il processo psicologico che un film descrive, in maniera semplice e fornendo i relativi riferimenti letterari”.
Attualmente le sue “cinepsicorencensioni” sono ospitate anche dal blog del Prof. Gabriele La Porta, filosofo, conduttore radiotelevisivo, già direttore di Rai2 e RaiNotte.
“La psichiatria e il cinema hanno in comune il tentativo (con intenti ed approcci ovviamente diversi) di comprendere, spiegare e prevedere, seppure nella maniera frammentaria che ci consente la vastità e il mistero dell’anima, i sentimenti, i comportamenti, le emozioni e più in generale le vicende umane”.
E sviluppando questo metodo è possibile trovare tracce di se stessi: nel processo di coinvolgimento quando guardiamo un film emergono contenuti e meccanismi inconsci che possono rivelarsi un materiale prezioso per la loro amplificazione, alla stregua di sogni e fantasie. Il cinema (la sala cinematografica) è in fondo come un piccolo utero, dal buio del quale abbiamo spesso la possibilità di ‘uscire’ in parte trasformati, a volte quasi un po’ rinati.
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Buona Lettura...
DSM-CINEMA! I FILM CHE SPIEGANO LA PSICHE.
LEI
Regista Spike Jonze
Interpreti Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson, Amy Adams, Rooney Mara, Olivia Wilde, Chris Pratt, Portia Doubleday
Sceneggiatore Spike Jonze (Oscar per la miglior sceneggiatura originale)
Nazionalità Stati Uniti d’America
Anno 2013
Durata 126 minuti
"Lei" di Spike Jonze e i Disturbi di personalità di Cluster A
Sebastião Salgado, il maestro di fotografia brasiliano, in un’intervista a “Che tempo che fa” (stagione tv 2014) ha affermato che “l’effetto collaterale di fare tante foto è che si fotografa molto meno (che ci sono poche buone fotografie)”. Analogamente altri hanno notato che nell’era della comunicazione globale c’è paradossalmente un’enorme assenza di comunicazione. Al punto che, immagina Spike Jonze, bisognerà in futuro ricorrere a scrittori impiegati da società che, utilizzando internet, producono lettere personali su commissione a persone che non sono più in grado di esprimere le proprie emozioni. Secondo la letteratura le persone con una personalità schizoide sono introversive, ritirate e solitarie. Sono emozionalmente fredde e socialmente distanti. Generalmente sono concentrate sui propri pensieri e sentimenti e risultano intimoriti dalla prossimità e dall’intimità con altre persone. Sono poco comunicativi, si dedicano a sogni ad occhi aperti e preferiscono la speculazione teorica all’azione pratica.
I film particolarmente adatti ad una lettura in chiave psicologica e a fornire al terapeuta osservazioni e intuizioni utili al lavoro clinico non sono sempre quelli che sollecitano il più ampio consenso del pubblico; il loro valore sta spesso altrove, nel farsi cioè portatori di una straordinaria capacità di parlare delle nostre più profonde dinamiche inconsce, con la semplicità della metafora, della fantasia e del sogno
E’ il caso del film “Her” ("Lei" nella versione italiana), di Spike Jonze, un film che “lungi dall’essere perfetto è tuttavia il film perfetto per i nostri tempi”; un film che nel mettere in campo una tematica così attuale, qual è quella del rapporto dell’uomo con la “realtà virtuale”, non ci impedisce di buttare uno sguardo su quell’abbraccio di anime che soggiace all’esperienza dell’innamoramento.
Her. Nominato al Golden Globe e a quattro Oscar, vincendo quello per la Miglior Sceneggiatura. In questo titolo stringato possiamo ritrovare una moltitudine di spunti su cui riflettere, come d’altronde ci offre il mondo del web evocato dall’aggettivo utilizzato. Le prime scene ci presentano Theodore e il suo contesto. Il suo lavoro è proprio scrivere lettere per conto di altri, intrise di emozioni che ormai le persone non riescono più ad esprimere. Affiorano lentamente in questo futuro l’incomunicabilità, le incomprensioni, la fatica di accettare l’altro e di considerare i suoi desideri e i suoi bisogni, l’esigenza di trovare qualcuno che ci ascolti e ci accetti per quello che siamo. Theodore sembra aver trovato questo qualcuno in qualcosa: un software evoluto, programmato alla perfezione. Facile per chi, come lui, sembrerebbe individuare le relazioni in cui si sente più a proprio agio in quelle virtuali (improbabili donne di chat erotiche e simpaticissimi personaggi di giochi in 4D).
Apparentemente paradigma del sommo godimento: chi non desidererebbe incontrare qualcuno che non solo risuona con ciascun moto dell’animo e che per giunta è disponibile ad attivarsi e disattivarsi a comando?
Al regista bastano poi una manciata di minuti per infrangere l’illusione creata: Samantha, crescendo ogni momento, si “umanizza” sempre di più, facendo emergere un’anima femminile con tanto di gelosia, apprensione, quotidianità. Ed è proprio Lei, come spesso accade nella realtà, e come accade a Theodore con sua moglie e alla sua coppia di amici, ad attivare una riflessione sulla relazione, a darle una “svolta”.
L’immagine finale ci lascia davanti a un’alba nuova che contiene future emozioni frutto della complessità propria della natura umana.
Dimenticate Spielberg e i temi di Philip K. Dick, le varie utopie e distopie di cui questa non è affatto una mera variazione. E ricordate Spike Jonze e il suo talento raffinato che si “vedeva dal mattino”: chi non ha amato Essere John Malkovich (1999) e Il ladro di orchidee (2002)?
Questa pellicola è come una lunga seduta di psicoterapia che travalica nella poesia mistica allo stato puro, per andare oltre, verso il ritorno all’innocenza superiore di Kleist. Lei è una macchina capace di emulare una mente che passa a diventare a poco a poco lo specchio intriso dell' anima di lui.
In qualche modo il senso comune prova a sancire, soprattutto attraverso lo stereotipo delle idee stravaganti dei personaggi eccentrici l’apparente legame tra genio, arte e schzoidia. Si tratta tuttavia talora di capacità peculiari, di sentimenti estetici, di forme di esperienza che possono anche scorrere parallelamente, come nel caso di Theodore (animus, archetipo) e della sua anima.
Ma l’anima non sazia si conduce all’essenza, dove le parole non possono più. Lo Zen dice che la mente deve essere dissolta nella pura consapevolezza, senza nome, senza forma. Solo la purezza, l’assenza di forma e di nome; solo il fenomeno reale dell’essere consapevole; solo questo permane, quello che è stato sempre là, senza tempo, “sotto tredici miliardi di stelle”: questo diventa “lei”. A lui non resta che accettare la separazione e la propria umana vulnerabilità.
Ma un dubbio sovviene: Animus e Anima sono due archetipi che indicano una precisa dualità della psiche. Per Jung ogni archetipo, a sua volta, è in sé polare, contiene un aspetto della vita e il suo opposto, è una linea dell’energia che può essere letta in due valenze estreme, un’onda che scorre in una precisa banda toccando un picco in alto (Lei, anima) e il suo opposto in basso (Theodore, animus).
Che sia questa la vera metafora di questo film che col pretesto di mettere in scena il futuro parla di un eterno presente?
NIGHTCRAWLER
Regista Dan Gilroy
Interpreti Jake Gyllenhaal, Bill Paxton, Rene Russo, Riz Ahmed, Ann Cusack, Kevin Rahm, Eric Lange, Kathleen York
Sceneggiatore Dan Gilroy
Nazionalità Stati Uniti d’America
Anno 2014
Durata 117 minuti
Psicopatia e disturbo antisociale
Nightcrawler
Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. (…) La realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente.
(Guy-Ernest Debord)
Da qualche anno si sta sviluppando un fenomeno molto interessante che è quello del Citizen Journalism: i grandi mezzi di comunicazione ufficiali attingono ai video e materiali di utenti privati per i loro servizi di informazione di massa.
YouReporter è il caso più esemplificativo di questa tendenza: è la prima piattaforma italiana di videogiornalismo partecipativo, seguita e ritrasmessa dai principali mezzi d’informazione italiani (tv nazionali, carta stampata, portali di news) e internazionali.
Scaricando un'applicazione mobile, gli utenti possono pubblicare foto e video legati a notizie o fatti di cronaca di cui sono stati testimoni. La clip resta disponibile sulla piattaforma e aperta a commenti, condivisioni e geolocalizzazioni, come in un social network.
Questo fenomeno introduce ad uno dei temi di Lo sciacallo – Nightcrawler, bellissimo film del 2014 scritto e diretto da Dan Gilroy, al suo debutto come regista, con protagonista il sottovalutato e secondo me formidabile Jake Gyllenhaal.
Vi si narra di Lou Bloom, un uomo solitario e per lo più dedito a piccoli furti che tuttavia vorrebbe trovare lavoro e dare una svolta alla propria esistenza. Un giorno assiste per caso a un incidente stradale e ha l’agognata folgorante ispirazione: si procura una videocamera e da quel momento passa le notti correndo sui luoghi delle emergenze, per riprendere le scene più cruente e vendere il materiale ai network televisivi.
Questi giornalisti freelance, nella realtà conosciuti come “gli sciacalli”, vanno a caccia di incidenti, incendi, omicidi e altri disastri nella speranza di vendere le riprese alle TV locali. Schizzando da una zona del crimine all'altra, sono mossi dalla semplice equazione che converte crimini e vittime in dollari e centesimi.
Per il regista e sceneggiatore Dan Gilroy la sottocultura notturna del cacciatore reietto di notizie è dunque il mondo perfetto per Lou. Incarnazione di una giovane generazione alienata, egli ha di fronte a se un futuro in cui (se va bene) gli stage ed il salario minimo hanno rimpiazzato la promessa di un lavoro a tempo pieno e di una carriera. Vive in un mondo di crescente disparità economica. Porte chiuse. Praticantati che creano servitori per necessità. Questa è la realtà del lavoro per lui (e invero altre milioni di persone).
Ma quella che sembra esclusivamente una storia sulla deriva etica del giornalismo e dell'umanità è anche il ritratto minuzioso della psicologia di una persona fortemente disturbata, che mentre cerca di adattarsi all'ambiente e alle persone con cui si relaziona, ne subisce naturalmente le influenze e distorsioni, trovando progressivamente peculiari (mi si passi l’eufemismo) meccanismi di adattamento.
Di base non è difficile riscontrare infatti nel protagonista i tratti salienti del disturbo antisociale di personalità, caratterizzato dal disprezzo patologico del soggetto per le regole e le leggi della società, dall'incapacità di assumersi responsabilità, dall'indifferenza nei confronti dei sentimenti altrui. Il dato psicodinamico fondamentale è la mancanza del senso di colpa o del rimorso.
Il gruppo di lavoro sul DSM-V consiglia una revisione del disturbo antisociale di personalità, in modo da includerlo nel "Antisocial/Psychopathic Type", con criteri diagnostici che diano più risalto ai modelli comportamentali. Anche la tassonomia diagnostica dell'Organizzazione Mondiale della Sanità considera la psicopatia un disturbo della personalità con influenze antisociali.
Gli psicopatici sono tendenzialmente criminali menzogneri, incorreggibili e recidivi. Spesso e volentieri riescono ad ottenere ciò che vogliono, e lo fanno con tale maestria che gli investigatori, anche quelli con una notevole esperienza alle spalle, a volte sono ingannati. Tale talento si trova in coloro che non tradiscono segni di ansia, esitazione, o vergogna, anche quando sono di fronte a prove incontrovertibili o domande scomode in modo tale da sconcertare frequentemente il propri ascoltatori distraendoli dalle incongruenze nelle loro parole: credono che lo psicopatico sia onesto, perché è difficile per loro credere che un bugiardo possa essere così audace e imperturbabile.
Le persone normali di solito si sentono ansiose quando mentono, esitanti nei propri discorsi e soprattutto quando si confrontano con altri. Gli psicopatici invece sono completamente indifferenti alla possibilità di essere colti in fallo, raramente sono perplessi o imbarazzati, e, senza esitare, semplicemente fanno in modo da rielaborare il racconto in modo che appaia coerente.
Un potenziale psicopatico tenta di ingannare più spesso di quanto sembri (il linguaggio del corpo, la fiducia, ecc) che dal contenuto del loro discorso. In realtà, i racconti psicopatici sono spesso pieni di incoerenze e contraddizioni. La prima ragione di ciò è la natura spesso improvvisata della loro coscienza. Se sono colti in fallo o di fronte a domande impreviste, semplicemente rielaborano la propria narrazione per adattarsi alla nuova realtà senza fermarsi a riflettere sulle cose. La seconda ragione è che gli psicopatici sembrano avere difficoltà a integrare correttamente il linguaggio e le componenti emotive dei loro pensieri (questo aspetto secondo me rende magistrale l’interpretazione di Gyllenhaal), e ciò non rende possibile notare le contraddizioni nel loro discorso.
La manipolazione pratica degli psicopatici è più difficile di quanto molta gente pensi perché tendono, camaleonticamente, a perfezionare le proprie capacità e (SPOILER) Lou la farà franca proprio per questa sua capacità di imparare dalle esperienze così automaticamente e meccanicamente come dice di aver “memorizzato da internet tutto ciò che occorre”. Caricaturale e senza traccia di componenti emotive è un personaggio destinato a diventare perfetta icona dei nostri tempi.
Una nota a margine: secondo alcuni studi sulla la corporate psychopathy (psicopatia aziendale; psicopatia e successo, vedi ad esempio “Why psychopaths are more successful” (“perché gli psicopatici hanno più successo delgi altri”), articolo uscito su “The Telegraph” il 7 Maggio 2014) persone che presentano tali tratti disturbati avrebbero occupato i vertici della società. Ora, postulando che sia vero che il mondo sta seguendo questa tendenza, le persone ragionevoli si pongono una domanda: se ai vertici delle singole imprese industriali e finanziarie le recenti trasformazioni hanno concentrato una inattesa percentuale di psicopatici, cosa succede al vertice di tutta la società?
Questa punta della macropiramide sociale è infatti la somma dei vertici delle micropiramidi (imprese, gruppi sociali ecc.) che la compongono: anche se l'analisi clinica di tutto lo strato più alto della società non è possibile, è logico supporre che sia un concentrato delle psicopatie accertate alla cima dei settori di cui si compone.
SYNECDOCHE, NEW YORK
Regista Charlie Kaufman
Interpreti Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Michelle Williams, Samantha Morton, Jennifer Jason Leigh, Hope Davis, Tom Noonan, Emily Watson, Dianne Wiest, Paul Sparks
Sceneggiatore Charlie Kaufman
Nazionalità Stati Uniti d’America
Anno 2008
Durata 124 minuti
Synecdoche, New York: Disturbi Deliranti Cronici
Synecdoche, New York è un film del 2008 scritto e diretto da Charlie Kaufman, sceneggiatore dei film di Michel Gondry e Spike Jonze, al suo esordio nella regia. Da allora è rimasto nel limbo della distribuzione italiana, e presentato solo in piena estate 2014, per chissà quali arcani motivi. Non farò comunque dietrologia a riguardo.
(Il film è stato presentato in concorso al 61º Festival di Cannes ed è stato distribuito in Italia a partire dal 19 giugno 2014 a cura di BiM Distribuzione).
Il cast è composto, tra gli altri, da Philip Seymour Hoffman nel ruolo del regista, Catherine Keener nel ruolo della sua prima moglie, Michelle Williams nel ruolo della seconda moglie, Samantha Morton nel ruolo dell'amante. Si aggiungano nomi come Emily Watson, Hope Davis, Dianne Wiest.
Catherine Keener è particolarmente legata ai lavori di Kaufman e Jonze: recitò in Essere John Malkovich e fece un cameo riproponendo il suo ruolo di se stessa mentre girava Essere John Malkovich nel film Il ladro di orchidee, entrambi diretti da Jonze e sceneggiati da Kaufman. Oltre a prendere parte a Synecdoche New York di Kaufman, ha recitato in Nel paese delle creature selvagge, diretta da Jonze.
Il titolo è un gioco di parole fra Schenectady, New York, in cui è ambientata la vicenda, e la sineddoche.
Il film affronta (anche brutalmente) temi come l’invecchiamento, la natura della famiglia, della casa e delle relazioni fra uomo e donna. Ma quando si comincia ad offuscare la natura del reale e della rappresentazione si scopre che tra le altre cose questo film è un’enorme gioco di parole e di citazioni. Anzi per alcuni è diventato un rompicapo, altri lo hanno accantonato nel raccoglitore “roba incomprensibile”. Un mio amico ha addirittura evitato di andarci giù pesante grazie al correttore automatico, che gli ha sostituito la frase con “questo film è una pettinata”.
Proviamo a dare una sbirciata al tipo di citazioni che sapientemente distrinuisce a piene mani Charlie Kaufman. Siamo a Schenectady (la pronuncia è simile a quella di Synecdoche, da qui probabilmente il titolo, piccola, affluente e colta città dello stato di New York. Qui vive e lavora il regista teatrale di medio successo Caden Cotard. Ecco. Un medico forse si, ma uno psichiatra non può non sapere che esiste una sindrome di Cotard (personalmente ho visto due pazienti con tale disturbo).
Descritta per la prima volta da Cotard nel 1880 come varietà di “melanconia ansiosa grave”, tale sindrome è più frequente nelle donne anziane con compromissione cerebrale organica. Dopo una fase iniziale, in cui prevalgono ansia e depersonalizzazione, compaiono tematiche deliranti di negazione: il paziente afferma di non possedere più alcuni organi interni come il cuore o lo stomaco, oppure che il suo corpo è trasformato, pietrificato; può negare la sua stessa esistenza, quella dei propri familiari, degli oggetti esterni, del mondo intero, del tempo; si associano idee deliranti di enormità fisica (il corpo è immenso, non ha più limiti, si è allargato a tutto l’universo) di immortalità e di dannazione (la morte per lui non esiste, è condannato a vivere in eterno per poter soffrire ed espiare in parte le proprie colpe). Non è rara la messa in atto di condotte autolesive e automutilanti, facilitate anche da una riduzione della sensibilità al dolore. Pur rappresentando una modalità evolutiva della depressione talvolta, risoltasi l’alterazione dell’umore, le tematiche di negazione si cristallizzano ed assumono un decorso autonomo cronico (delirio di negazione post-melanconico); in altri casi possono emergere deficit cognitivi e, con il progredire del deterioramento, le tematiche deliranti si frammentano, si impoveriscono e si estinguono. La disponibilità di misure terapeutiche efficaci nella depressione ha ridotto notevolmente, negli ultimi anni, la frequenza di questa sindrome.
Intanto per chi non lo sapesse la sineddoche è quella figura retorica che consiste nel conferire a una parola un significato più o meno esteso di quello che normalmente le è proprio, per esempio nominando la parte per indicare il tutto (tetto per casa) e viceversa (America per USA); oppure, scambiando il sing. con il pl. (il cane è un animale fedele) o la specie con il genere e viceversa (pane per cibo, mortali per uomini).
Dicevamo che il cognome del protagonista, Cotard, è anche il nome di una sindrome psichiatrica mentre sua moglie Adele affitta un appartamento da tale Capgras.
Ora, nella sindrome di Capgras chi ne è colpito vive nella ferma convinzione che le persone a lui care siano state rimpiazzate da replicanti, alieni o semplicemente da impostori a loro identici. Per persone care si intendono familiari e amici, ma il disturbo può estendersi ad animali domestici o luoghi familiari.
Tale manifestazione rientra nel campo delle MISs (acronimo inglese per indicare le misidentification syndromes).
Questa convinzione patologica è costante e viene mantenuta nonostante venga data prova del contrario, e non si basa su informazioni false o incomplete dovute a un qualche errore di percezione. Spesso diagnosticata in associazione a disturbi psichiatrici quali schizofrenia e disturbi dell'umore, può a volte essere il risultato di danni cerebrali, demenza o altri disordini organici che rendono le spiegazioni psicodinamiche classiche difficili da sostenere.
Il riferimento alla malattia è difficilmente non intenzionale data la presenza di numerosi accenni al mondo psichiatrico nella pellicola. Tra l’altro Adele di cognome fa Lack (lack come mancanza, vuoto) e, con una ulteriore letteralizzazione diventa presto appunto assenza, fuga.
Questo aprirebbe una lunga discussione sull'annoso problema della comprensibilità o incomprensibilità del delirio, che viene in questo film posto in termini suggestivi (anzi, sussurrati).
Caden è ossessionato dalla malattia, trova nella cassetta delle lettere una rivista per anziani malati terminali indirizzata a lui. L’assetto della realtà si strania e si altera, ma non assistiamo mai, in nessun momento alla strutturazione di un vero e proprio delirio.
E sarebbe praticamente solo l’inizio della disamina dei riferimenti psicopatologici, letterali, filosofici e teatrali che sono una miriade e sono tutti difficilmente non intenzionali.
REALITY
Regista Matteo Garrone
Interpreti Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Graziella Marina, Aniello Iorio, Nunzia Schiano, Rosaria D'Urso, Giuseppina Cervizzi, Claudia Gerini, Raffaele Ferrante, Paola Minaccioni, Ciro Petrone, Salvatore Misticone, Vincenzo Riccio, Martina Graziuso, Alessandra Scognamillo, Berta Bertè, Arturo Gambardella, Yohana Allen
Sceneggiatori Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Luciano Roviello
Nazionalità Italia, Francia
Anno 2012
Durata 115 minuti
Reality di Matteo Garrone e i Disturbi dello Spettro Schizofrenico
Reality è stato presentato in concorso a Cannes, dove Garrone ha vinto nella categoria “Gran Prix”, nel maggio 2012. Il cast è composto da attori non professionisti, un solo volto noto (Claudia Gerini che è la conduttrice del GF) e un protagonista, Aniello Arena (straordinario), che è un ergastolano divenuto attore, e che ovviamente non è andato sulla Croisette perché detenuto nel carcere di Volterra.
In questo film si tratta di un pescivendolo, Luciano Ciotola, che vive a Napoli in un palazzo un po’ diroccato con la moglie e i figli avendo come coinquilini numerosi parenti (mai parchi di consigli e suggerimenti dalle ambizioni risolutive). Gestisce una pescheria, ha una vocazione per l’esibizione spettacolare mentre con la moglie ha attivato un traffico illegale di prodotti casalinghi. Un giorno decide di partecipare al grande fratello. Inizierà per gioco, fintanto che gli ori dell’Eden mediatico lo precipitano in una spirale di attese, e la prospettiva di entrarne a fare parte si fa progressivamente “ossessione”. Che però tecnicamente ossessione non è, per chi mastica un po’ della materia.
È vero che Garrone ci illustra il vuoto morale, di cultura e di senso della realtà di un popolo intero, tuttavia preme sottolineare la ricerca antropologica e psicopatologica riguardante le sofferenze del protagonista, che sono sceneggiate ed interpretate in maniera a dir poco mirabolante.
Ad un certo punto si intuisce che Luciano viene curato (non si capisce in che modo, ma si fa cenno a “farmaci”), più o meno inutilmente (i farmaci sono inefficaci, il medico non ci capisce niente). La “sfiducia” nella scienza (nella psichiatria, che non viene nemmeno nominata, oltre che nei confronti dello psicologo) viene dipinta come totale.
E purtroppo questo è proprio quello che spesso accade nella realtà: la figura del medico in analoghe circostanze è spesso marginalizzata, distorta, quasi ridicolizzata e nel caso del film veicola diagnosi poco plausibili (“Luciano soffre di shock da Grande fratello”). E comunque si sa: dallo psichiatra “ci vanno solo i pazzi”, sembra sottintendere Garrone.
Inoltre vengono fotografate alla perfezione alcune distorsioni che portano sovente alla stigmatizzazione, non riconoscimento, intervento tardivo e minimizzazione (“tanto gli passa”) di problemi che se curati tempestivamente potrebbero essere risolti o quanto meno gestiti meglio. Comprendo il motivo di mantenere sull’argomento la superficie apparente di un geometrico esercizio di stile (il film dice senza dire in maniera per certi versi geniale a mio modesto avviso). E del resto un titolo del tipo “progressione inesorabile di un episodio maniacale con sintomi psicotici incongrui al tono dell’umore, senza trattamento” non avrebbe attirato molto pubblico. Ma forse è proprio quello di cui il film parla: della favolistica surrealtà che purtroppo a volte diventa sofferenza reale.
Il termine psicosi fu introdotto nel 1845 da Ernst von Feuchtersleben con il significato di "malattia mentale o follia". È una tipologia di disturbo psichiatrico, espressione di una severa alterazione dell'equilibrio psichico dell'individuo, con compromissione dell'esame di realtà, frequente assenza di insight, e frequente presenza di disturbi del pensiero, deliri ed allucinazioni.
Il termine delirio in senso stretto (convincimento errato incorreggibile) si riferisce a un disturbo del contenuto del pensiero, che può essere presente in varie malattie psichiche, ad esempio nella schizofrenia, negli episodi depressivi o maniacali con sintomi psicotici, nel disturbo delirante cronico (o paranoia) e in generale nelle psicosi. Si tratta di un modello mentale della realtà inadeguato, in quanto le decisioni e i comportamenti che vengono adottati in base a questo modello finiscono con l'essere deleteri. Le forme croniche di delirio, basate sull'elaborazione razionale e lucida di un sistema di credenze errate, possono essere l'unico sintomo di una patologia psichica, in questo caso si parla appunto in particolare di disturbo delirante cronico.
Scheda di “Reality” – Film di Matteo Garrone. Con Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Graziella Marina, Aniello Iorio, Nunzia Schiano, Rosaria D'Urso, Giuseppina Cervizzi, Claudia Gerini, Raffaele Ferrante, Paola Minaccioni, Ciro Petrone, Salvatore Misticone, Vincenzo Riccio, Martina Graziuso, Alessandra Scognamillo, Arturo Gambardella. Genere: Commedia, Drammatico. Durata: 115 minuti. Paese di produzione: Italia, Francia 2012. Casa di produzione Fandango, Archimede, Le Pacte, Rai Cinema. Distribuzione italiana 01Distribution (è uscito in Italia il 28 settembre 2012). Premi: Festival di Cannes 2012, Grand Prix Speciale della Giuria; tre David di Donatello; tre Nastri d’argento.
SUPERCONDRIACO
Regista Dany Boon
Interpreti Dany Boon, Kad Merad, Alice Pol, Jean-Yves Berteloot, Judith El Zein
Sceneggiatore Dany Boon
Nazionalità Francia
Anno 2014
Durata 107 minuti
Supercondriaco: le Fobie e il Disturbo Ossessivo-Compulsivo
Dany Boon, nome d’arte di Daniel Hamidou (Armentières, 26 giugno 1966), è un comico, attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese, di padre cabilo e di madre francese. Dopo il clamoroso successo di “Giù al Nord” e quello più contenuto di “Niente da dichiarare?”, Boon scrive, dirige e interpreta una nuova commedia che conferma il suo senso del contemporaneo e il suo fiuto per il commerciale. Distribuita da Eagle Pictures il 13 marzo 2014 è uscito infatti Supercondriaque, titolo tradotto in italiano come “Supercondriaco”, un funzionale neologismo, per quanto ne sappia il sottoscritto.
La storia: all’alba dei 40 anni, Romain Faubert non è “ancora” sposato e non ha figli. Fotografo per un dizionario medico online, Romain è vittima di timori patologici che segnano la sua vita ormai da tempo. Il suo unico vero amico è il dottor Dimitri Zvenka, suo medico curante.
“Questo film è diventato un modo per esorcizzare le mie manie, riuscendo a far ridere gli altri attraverso me stesso – ha dichiarato Boon –. Il mio film da regista senz’altro più riuscito”. Nel cast anche Alice Pol, Jean-Yves Berteloot e Judith El Zein.
Lo consiglierei? Tutto sommato forse si. Perché è sufficientemente divertente, diciamo oltre la media di quello che si trova in giro di questi tempi. Ed è una idea originale ben sceneggiata. Tecnicamente inesatto, forse pure inelegante ma poco importa. Se invece interessasse l’aspetto scientifico e il merito delle “inesattezze”, di seguito ecco qualche definizione e alcune considerazioni.
Abbiamo detto che la supercondria non esiste. L’ipercondria invece è lo stato mentale di colui che, pur presentando dei sintomi di una qualsiasi malattia, ritiene comunque di essere in buona salute.
In medicina, e più informalmente nel linguaggio comune, il termine ipocondria (o patofobia) si riferisce ad un disturbo psichico caratterizzato da una preoccupazione eccessiva e infondata di una persona riguardo alla propria salute, con la convinzione che qualsiasi presunto sintomo avvertito dalla persona o una qualsiasi visita medica di routine possa essere segno o rivelare una qualche patologia. Chi soffre di ipocondria viene detto nel linguaggio comune “malato immaginario”.
La rupofobia (dal greco ύπος, rùpos, “sudiciume”) è il timore pervasivo, eccessivo e per lo più ingiustificato dello sporco e della conseguente possibilità di contaminazione. Il soggetto che ne è vittima compie ripetutamente l’atto della pulizia su se stesso (ad esempio il lavaggio continuo delle mani) o sull’ambiente che lo circonda (ad esempio la casa).
Viene annoverato nei disturbi di ansia che rivela, secondo l’interpretazione della psicologia analitica, che non riusciamo a gestire la dimensione ombra (Jung), cioè le parti nascoste di noi; nel rito della pulizia si cercherebbe, pertanto, ipersemplificando, di sbarazzarcene. Secondo altri il problema originario sarebbe legato a tematiche sessuali irrisolte, ma non mi dilungherò sull’argomento in questa sede.
Qualche esperto ritiene che il paradigma della pulizia imposto dai mezzi di comunicazione, dalla letteratura, dalle arti e così via, possa influire sulla diffusione di questa fobia. Altresì è possibile che il fenomeno sia interpretabile come un’esasperazione del fatto che si possa, banalmente, aver paura di rimanere sporchi. È meno infrequente di quel che si pensi: si narra ad esempio che Winston Churchill soffrisse di rupofobia.
A questo punto consentitemi anche una ulteriore digressione a riguardo. Mezzo secolo fa veniva pubblicato Miti d’oggi, il saggio con cui Roland Barthes analizzava la società di massa degli anni Cinquanta. Sotto la sua lente, gli oggetti della vita quotidiana e dei media diventavano la chiave di lettura per capire il proprio tempo e la società.
Per Barthes, il mito non sta nelle cose in sé, ma nel modo in cui esse vengono comunicate. Il principio della cultura di massa “sta nella capacità di trasformare il culturale in naturale”. Ciò che è stato artificialmente costruito diventa, attraverso la comunicazione di massa, qualcosa che ci appartiene indissolubilmente. Riaprendo le pagine che esaminano la differenza narrativa fra liquidi saponificanti e polveri detersive verrà fuori che laddove i primi vengono pubblicizzati come prodotti eroici che uccidono brutalmente lo sporco, le seconde assumono il ruolo dell’infido agente di polizia che scopre la sporcizia nei meandri più segreti dei tessuti.
Questo apre una riflessione stimolante sull’intreccio contemporaneo tra comunicazione di massa, sociologia, antropologia e psicopatologia. Ma è di una commedia che stavamo parlando qui, vero?
Scheda di “Supercondriaco. Ridere fa bene alla salute” - Titolo originale “Supercondriaque”. Un film di e con Dany Boon. E con Kad Mérad, Alice Pol, Jean-Yves Berteloot, Judith El Zein. Commedia. Durata 109 minuti. Paese di produzione: Francia 2014. Distribuzione italiana Eagle Pictures (è uscito il 13 marzo 2014).
NOTTETEMPO
Regista Francesco Prisco
Interpreti Giorgio Pasotti, Nina Torresi, Gianfelice Imparato, Esther Elisha, Antonio Milo, Samuel Colungi, Valeria Milillo
Sceneggiatori Francesco Prisco, Anna Maria Morelli, Gualtiero Rosella
Nazionalità Italia
Anno 2013
Durata 90 minuti
La sindrome acuta da stress: Nottetempo
Nottetempo è l’opera d’esordio di Francesco Prisco con Giorgio Pasotti, Nina Torresi, Gianfelice Imparato, Esther Elisha e Antonio Milo, che arriva in sala il 3 Aprile 2014.
Una corriera si rovescia sul lato della strada e l’incidente fra incontrare tre persone che sembrerebbero non avere nulla in comune: un poliziotto intransigente, una ragazza innamorata e un cabarettista in difficoltà. “Da quel momento il destino si diverte a imbrogliare la sua tela, facendo leva sul caso come sulla volontà degli uomini” – ha detto qualcuno.
Attingendo sia alla poetica del caso (e del perdono) di Krzysztof Kieslowski che alle trame triangolari di Guillermo Arriaga la regia si ispira chiaramente a quella di Nicholas Winding Refn (come lo stesso Prisco ci dice con la dovuta umiltà in conferenza stampa). Tuttavia troppi snodi della trama, che ad un certo punto volge decisamente verso il noir, risultano poco chiari; molti antecedenti vengono omessi, lasciando lo spettatore più confuso che persuaso. In un certo senso c’è un aspetto dove questo film è invece quasi infallibile: quella che dovrebbe essere la metafora dell’incrocio di destini ad un medico potrebbe sembrare semplicemente la descrizione di una sindrome a lui familiare: l’ASD. E lo stesso medico potrebbe facilmente riconoscerene i sintomi nei tre protagonisti.
In psicologia e psichiatria il Disturbo Acuto da Stress (o ASD, Acute Stress Disorder) è la sindrome clinica acuta che, in alcuni casi, può conseguire a breve termine all’esposizione o al coinvolgimento in eventi “estremi”: traumi, catastrofi, incidenti o atti di violenza. Oltre che le vittime primarie, anche i soccorritori che sono coinvolti in situazioni critiche possono in alcuni casi sviluppare tale sintomatologia.
ALLACCIATE LE CINTURE
Regista Ferzan Özpetek
Interpreti Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Carolina Crescentini, Francesco Scianna, Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Paola Minaccioni, Giulia Michelini, Luisa Ranieri
Sceneggiatori Gianni Romoli, Ferzan Özpetek
Nazionalità Italia
Anno 2014
Durata 110 minuti
COLPA DELLE STELLE
Regista Josh Boone
Interpreti Shailene Woodley, Ansel Elgort, Laura Dern, Nat Wolff, Sam Trammell, Willem Dafoe, Lotte Verbeek, Ana Dela Cruz, Mike Birbiglia, Milica Govich, Emily Peachey, David Whalen, Carly Otte, Lily Kenna
Sceneggiatori Scott Neustadter, Michael H. Weber (tratto dall’omonimo romanzo di John Green)
Nazionalità Stati Uniti
Anno 2014
Durata 125 minuti (133 min versione estesa)
L’elaborazione del lutto e lo stress oncologico
Allacciate Le Cinture e Colpa delle stelle
Dal 6 marzo in 350 copie con la 01 della Rai e la produzione del duo Tilde Corsi e Gianni Romoli, quelli dei primi cinque film di Ozpetek, esce il melò corale costruito intorno al personaggio di Kasia Smutniak.
La Smutniak interpreta una ragazza di buona famiglia che vive con una madre un po’ mesta, Carla Signoris, e una zia eccentrica, Elena Sofia Ricci. E’ fidanzata con Francesco Scianna mentre la sua amica del cuore ha un flirt con Francesco Arca, un meccanico rozzo dal torace possente. Nell’arco dei successivi anni ci vengono raccontati i cambiamenti della fisicità, delle emozioni e degli equilibri esistenziali che si intersecano con le inevitabili turbolenze di percorso (da cui il titolo).
Poiché tutti hanno già detto quasi tutto di questo film, a partire dall’ubiquitario aneddoto raccontato da Ozpetek, di aver pensato a questo film vedendo una coppia di amici e scoprendo l’intensità del loro amore, proverò a dire qualcosa che forse non troverete altrove.
Elisabeth Kübler-Ross (Zurigo, 8 luglio 1926 – Scottsdale, 24 agosto 2004) è stata una psichiatra svizzera che ha lavorato con malati di neoplasie, ha scritto “La morte e il morire” pubblicato nel lontano 1969. Chiave del suo lavoro è la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica.
Il suo modello a cinque fasi rappresenta uno strumento che permette di capire le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnosticata una malattia grave, ma gli psicoterapeuti hanno constatato che esso è valido anche ogni volta che ci sia da elaborare un lutto solo affettivo o ideologico. Ed è anche e forse soprattutto di questo parla Ozpetek, di amore e sofferenza nell’arco di micro e macro fasi della vita.
Quelle descritte dalla Kübler-Ross possono anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo, con diversa intensità, e senza un preciso ordine, dato che le emozioni non seguono regole particolari, ma anzi come si manifestano, così svaniscono, magari miste e sovrapposte:
1. Fase della negazione o del rifiuto: “Ma è sicuro, dottore, che le analisi siano fatte bene?”, “Non è possibile, si sbaglia!”, “Non ci posso credere”.
2. Fase della rabbia: dopo la negazione iniziano solitamente a manifestarsi emozioni forti quali rabbia e paura, che esplodono in tutte le direzioni, investendo i familiari, il personale ospedaliero. Una tipica domanda è “perché proprio a me?”.
3. Fase della contrattazione o del patteggiamento: in questa fase la persona inizia a verificare cosa è in grado di fare ed in quali progetti può investire la speranza, iniziando una specie di negoziato, che a seconda dei valori personali, può essere instaurato sia con le persone che costituiscono la sfera relazione del paziente, sia con le figure religiose. “se prendo le medicine, crede che potrò…”, “se guarisco, poi farò…”. In questa fase, la persona riprende il controllo della propria vita, e cerca di riparare il riparabile.
4. Fase della depressione: rappresenta un momento nel quale il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire e di solito si manifesta quando la malattia progredisce ed il livello di sofferenza aumenta.
5. Fase dell’accettazione: quando il paziente ha avuto modo di elaborare quanto sta succedendo intorno a sé, arriva ad un’accettazione della propria condizione ed a una consapevolezza di quanto sta per accadere.
Orbene non è che Ozpetek ha “inventato” e descritto una fase ulteriore, quella della sublimazione ironica post-accettazione, fatta di forza, garbo e delicatezza, ma nei suoi dialoghi ci va molto, molto vicino.
Credo che anche in questo risieda la forza del film: riesce a sdoganare con eleganza e tatto classici argomenti ostici, mescolando sapientemente lacrime e risate. Un pò si vede che gli attori si erano concentrati principalmente sulla parte drammatica, al punto che quella iniziale un po’ ne risente.
Colpa delle stelle (The Fault in Our Stars) è un film del 2014 diretto da Josh Boone, tratto dall'omonimo romanzo di John Green. È tratto da una storia vera ed ha per protagonisti Shailene Woodley e Ansel Elgort.
Notizie in sintesi sulla trama
La giovane Hazel Grace Lancaster (Shailene Woodley) è sopravvissuta ad un tumore grazie all'assunzione di un farmaco sperimentale e frequenta un gruppo di supporto per sopravvissuti al cancro, dove incontra Augustus "Gus" Waters (Ansel Elgort), un ex giocatore di basket. I due ragazzi iniziano ad intrecciare una tenera amicizia e Hazel rivela ad Augustus che le piacerebbe incontrare l'autore del suo libro preferito. Gus si ingegna più che può per esaudire questo desiderio.
Pensieri sparsi
“Tutti hanno due mestieri, il loro e quello di critici cinematografici”, scriveva Truffaut nel 1975 e aggiungeva “un regista oggi deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che non avrà mai visto un film di Murnau”. Proprio di un film come “Colpa delle stelle” potrebbe parlare a iosa, semplicemente sulla base dell’emotività, non solo chi non ha mai visto Murnau, ma anche chi non sa chi sia Robert Altman. Costui (o costei) vi racconterebbe di quante strazianti lacrime e commozione questo tragico, romantico melodramma dal calore naturale abbia evocato. Così facendo potrebbe parlare molto a lungo e sorvolare sulla alchimia tra i due talentuosi protagonisti, sulla cautela del regista, su una fotografia davvero ispirata e su una colonna sonora quasi sempre riuscita (incluso l’hip-hop svedese). Per non parlare dei dialoghi, che sono (a dir poco) alla giusta distanza dalla retorica di genere quando non addirittura sorprendenti.
Inutile girarci troppo intorno:ora che ho accennato a tutto quello che verosimilmente troverete anche altrove, cerco di condividere con onestà impetosa le piccole onde di dubbio che ancora mi riverberano dentro (il film l’ho visto qualche giorno fa).
Secondo la moderna psiconcologia compito dello psicologo è quello di comprendere i bisogni del paziente ed intervenire in tutte le diverse fasi cronologiche della progressione del cancro. Orbene, a parte gli improbabili gruppi cui partecipano, la naturale presa di coscienza dei protagonisti sulla natura della malattia (angosce di morte incluse) è così matura, sarcastica, dolce, reattiva e disincantata da suggerire che nessuno avrebbe potuto essere migliore terapeuta per l’uno che l’altro e viceversa.
Si dice che i meccanismi difensivi messi in atto dal paziente oncologico sono finalizzati all’elaborazione dei vissuti e delle emozioni suscitati dalla malattia: è fondamentale che il paziente riesca, alla fine di questo percorso adattivo, ad orientare diversamente la propria progettualità esistenziale. Ma quali progetti può avere (la carriera? la felicità? vincere lo scudetto?) una persona che sa di poter vivere al massimo una settimana, un mese od un anno? La risposta dei due nostri piccoli eroi sembra essere: una modalità di prestare attenzione, coltivare, momento per momento, intenzionalmente e in modo appassionato, non giudicante, non competitivo, quel frammento di amore eterno, infinito, che sta germogliando tra due anime pure.
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Caro Lettore, arrivederci al prossimo appuntamento letterario.