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“ BUENOS AIRES 22 poesia di un amore sincero “ di Benedetta Tomasello

Gli anni non cancellano le spine rosa, ingialliscono solo le foglie allo stelo freddo nella terra, ma il silenzio di una stella brilla eternamente anche se in cieli diversi.

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BIOGRAFIA AUTRICE

Benedetta Tomasello nasce a Palermo il 21 aprile del 1975 e sin dalla più giovane età si ritrova a giocare con la cazzuola e la spatola, utensili che reperiva nell’azienda di famiglia specializzata nella produzione della“cementina”. L’azienda, fondata da suo nonno Agostino, nel 1920, crea una vera e propria bottega d’arte dove Benedetta apprende tutti i processi per la realizzazione di un pavimento Liberty o Decò.
A 18 anni comincia a lavorare in azienda come semplice segretaria part-time, ma quell’antico mestiere comincia a prendere il sopravvento trasformandosi in amore puro per il cemento.  “Buenos Aires 22” il suo primo libro.

PRESENTAZIONE

Caro Lettore,

l'amore è una sana malattia, dagli effetti collaterali eterni, non decifrabili né catalogabili: esiste quando è sincero, basta solo capirlo. Un imprevisto piacevole di un caso fortuito scopre nell'anima "cantina" la ricetta di un antico amore, la melodia di un vecchio carillion continua a cullare i sogni di una bambina rimasta forchetta su una tavola imbandita a festa.  Una lettera imbucata il 22 e un telegramma ricevuto dal paradiso sono la chiave d'oro del portale iniziale.

Una storia d'amore filiale, raccontata poeticamente, frammenti di una storia di famiglia, intrisa di situazioni a tratti ironiche, a tratti commoventi.  I tratti fiabeschi di una bambina, la vita picaresca del nonno, la morte del padre, questi alcuni dei temi trattati nel romanzo.

L'uso del dialetto palermitano, che ha già portato fortuna a grandi autori siciliani, arricchisce il linguaggio dell'opera, che risulta comunque fruibile a un vasto pubblico.  Un romanzo raffinato e intimo, un esempio di letteratura regionale degna di un respiro nazionale.

Buona lettura…

* * * 

BUENOS AIRES 22

poesia di un amore sincero

LA VITA BELLA COME UN SOGNO

Correva per i prati in fiore a piedi nudi, forse per sentire più forte il contatto con la madre terra. Il vento le sfiorava i lunghi capelli, sembrava fosse la mano di un principe azzurro ad accarezzarla, il quale, giunto in groppa a un cavallo bianco, innamoratosi di lei, l’avrebbe condotta al suo castello per farne la sua sposa. Mentre le braccia forti del principe l’afferravano dolcemente, il suono assordante di un cucchiaino batteva sul fondo di una tazzina da caffè e trasformava in un solo momento il cavallo bianco in un brutto ronzino e il principe in un soave ricordo. Era già l’ora di alzarsi. Era stato un sogno. Un bel sogno pensava, mentre a stento riusciva ad aprire gli occhi. Con gli occhi ancora chiusi, come le porte di una chiesa a mezzanotte, alzava la sua mano destra verso l’alto e come per magia le veniva offerta una tazzina con un caldo e profumato caffè. «È ora di alzarsi!» disse Matteo. Ogni mattina, prima di uscire di casa, preparava due caffè, uno per la moglie e l’altro per una delle sue figlie. Anche se cresciuta, la viziava ancora, per lui sarebbe stata sempre la piccola bambina timida e introversa che, fin dallo zigote XX, era la sua ventosa. Ogni volta che Matteo la guardava, le ricordava sempre quando, da piccolina, correndo verso di lui, ondeggiava sulle sue fragili gambette e tuffandosi al petto del genio gli chiedeva di raccontargli la sua fiaba preferita, quella della “Lampada di Sesamo”. 

Mentre raccontava la storia fantastica, cambiando voce e corrugando il viso, riusciva a far credere a Giorgia che fosse tutto vero, facendole dimenticare che fosse solo una fiaba. Le piaceva così tanto quella fiaba! Ogni sera obbligava Matteo a raccontargliela fino alla nausea. Certe sere Matteo era molto stanco e allora Laura le annunciava di dover fare a meno della fiaba, mentre le dava un pallottoliere colorato per giocare. Ma non appena la mamma svoltava l’angolo, lei andava come un fulmine nella caverna di Ali babà e proprio come lui si nascondeva dentro la cesta di vimini delle biancheria sporca e aspettava d’essere trovata. Ogni tanto tossiva per la puzza dei calzini puzzolenti di Gabriele e così Matteo si accorgeva di lei: «Veni ca, cacatedda». Come un tappo di champagne schizzava fuori dal cesto, saltellava verso il ciglio del lettone e la mano forte del principe azzurro era lì pronta a raccoglierla e condurla con sé. Divaricando le sue gambette, saliva a cavallo del pancione del genio e adagiava lentamente il suo visino al petto villoso e, ridendo, recitava la parola magica: «Apriti sesamo». Oltre a “apriti sesamo” Matteo ci infilava pure la storia di un certo Ulisse e di tutta la sua compagnia. Laura gli diceva che l’Odissea non era affatto adatta a una bambina, non poteva certo capire il disgraziato viaggio di Odisseo. «Ma Giorgia è diversa dalle altre bambine» le rispondeva sempre. Lei non è una bambina come tutte le altre. «Secondo te una bambina che mangia la pasta con i tenerumi con la forchetta è normale?». Per chi non conoscesse la pasta con i tenerumi è una prelibatezza siciliana. Io comunque abbrevio la ricetta puoi reperirla su internet – mica serve solo per i film porno?

Fondamentalmente, è una minestra composta da tenerumi, pezzetti di parmigiano fuso e spaghetti rotti (ho indicato il parmigiano perché io lo preferisco). «Come si fa a mangiare la minestra con la forchetta?!». Eppure, se le toglievi la forchetta, lei non mangiava più e allora Matteo e Laura si accontentavano di una bambina-forchetta, perché lei non mangiava molto, manciàva comu ’n acidduzzu. Matteo le diceva sempre di mettersi nelle tasche del grembiulino due sassi, uno a destra e uno a sinistra – grandi almeno quanto i pugni delle sue manine – così se fosse venuto il forte vento di bora, non l’avrebbe portata via. Le conveniva quindi mangiare per prendere peso e diventare pesante quanto una mattonella in ciottolato da cm50xcm50, così, se fosse venuto il forte vento di bora, non l’avrebbe portata via come un aquilone. Un giorno Matteo le spiegò che sarebbero andati in un posto bello dove c’erano tanti bambini e tanti giochi. «Papà se tu mi porti a lavoro con te, per me è più bello!». Per lei era il paese dei balocchi, era il suo parco giochi proibito. Matteo le aveva ordinato che non doveva andarci senza di lui, perché era pieno di pericoli, però si sa che quando dici a un bambino di non fare una cosa è “automatico” che la debba fare. E infatti una domenica con l’amico fidato di giochi, Gabriele, Pinocchia e Lucignolo senza biglietto entrarono al parco giochi. C’erano tante montagne colorate, alcune gialle altre bianche. Le avevano raccontato che nelle montagne gialle poteva trovare tante pepite d’oro. «Sai quante caramelle puoi comprarti con le pepite d’oro?». Mica le avevano spiegato che le pepite d’oro erano solo delle brecce fuori vaglio di cava di estrazione. 

Pinocchia e Lucignolo cominciarono a scavare. Yaah! «Matri mia, talè che granni chista!». Non vi dico la gioia per ogni pepita trovata. Gareggiavano a chi ne trovava di più. Comunque gioca e rigioca e raccogliere pepite non fu più così avventuroso. Quando hai già riempito tre carriole e quattro cardarelle avrai una pensione di caramelle. Allora Gabriele che era più grande – e aveva già giocato diverse volte nel paese dei balocchi – disse a Giorgia che era bravo a preparare l’impasto per le statuette perché gliel’aveva insegnato lo zio. Era facilissimo: bisognava prendere la bottiglia trasparente, la resina e aggiungere una piccola parte di quella color miele che si chiamava zzaturi (o qualcosa del genere). Di seguito l’impasto veniva versato in una formella di gomma, rappresentante la forma della statuetta desiderata e infine bloccato il tutto con un elastico. Si dovevano aspettare ben due giorni prima di aprirla. Dopodiché si poteva iniziare a usarla, a giocare o cambiarla per le figurine degli animali. «Che bello voglio anch’io una statuetta, me la fai?». «Che colore la vuoi?». «Viola, mi piace». «Amunì, amunì». S’incamminarono, dirigendosi al comparto dei manufatti. Ad ogni capannone faceva una fermata come le poste della Via Crucis, c’era sempre qualcosa d’interessante: «Amunì, amunì, ’n tampasiari». Un bancone stretto e lunghissimo accolse i due chimici. La bimba vedeva l’inizio ma non la fine, fu amore a prima vista. Il chimico-capo prese subito un contenitore, il primo che gli capitò fra le mani, lo adagiò sul bancone e subito come un druido cominciò a preparare la pozione magica.

«Gabriele, ma io non vedo niente!». Mischina ’n ci
arrivava.
«Si ’na camurrìa, aspietta… aspe’».
Prese una cardarella, la mise sottosopra e improvvisò
un piccolo sgabello per Giorgia. «Yeah, che bello!». Finalmente
riusciva a vedere la fine del bancone.
«Accùra, ’n tuccàri nienti!».
«Allora, mettiamo tre bicchierini di resina e mezzo
bicchierino di catalizzatore».
«Uòra s’ammiscanu e s’arriminanu».
«Mi fai arriminari a mmia?».
«No! Tu cummini ’mpirugghi!».
L’infuso era pronto, ma prima che il fanciullo potesse
versare il tutto nello stampo, fu interrotto da Giorgia.
MUMBLE MUMBLE. «Ma a che serve il “cazzatore”?».
«Scema, a fare asciugare la resina!».
«Scusa, ma se noi aumentiamo il “cazzatore” non
dobbiamo aspettare due giorni?».
«Minchia… Vieru è! Più ne mettiamo meno aspettiamo…
è matematico». (iddi ricinu).
Le proporzioni furono stravolte.
«Ma secunnu tia abbasta?».
«No, metticcinni chiossà».
«Ancuora?».
«Chiossà chiossà!».
Si sa che i siculi sono esagerati in tutto. Loro non
hanno vie di mezzo, o ci sono o non ci sono. Hai mai
mangiato a casa di un siculo? Portati la valigia per la tavola imbandita, picchì siddu ’n ti manci tutti cuosi, a pigghianu ’n criminali.

«Ma perché fa fumo?». Vesuvio si preparava a Pompei,
neanche il tempo di mettere l’accento su chissà che:
«Scappamuuu…».
CRABOOM BOOM BOOM BOOM!
(Un macello).
«Giorgia mi fa fari sempri minchiati!…»
«Ops, ma io chi nni sapievu!».

La scamparono per miracolo. Non sto qui a raccontare il disordine creato sul bancone da lavoro. Uno tsunami. Il lunedì che seguì, l’uomo comparto dovette pulire e rassettare il salvabile. Giorgia aveva paura di quell’uomo, non per la resina, tanto lui mica lo sapeva, ma perché aveva tre denti d’argento. Le avevano detto, difatti, che l’uomo se li era rotti quando in Vietnam per la fame sbranò un bambino. E ’stu figghiu ri buttana, ogni volta che la vedeva, sorrideva e digrignava i denti che risplendevano come coltelli affilati, però le voleva tanto bene ma lei lo capì più tardi, una volta grande. Anche oggi la va a trovare, l’abbraccia e la bacia e ha sempre i denti d’argento, ma idda ’un si scanta cchiù. Scusate la lunga parentesi. Eravamo rimasti che Matteo avrebbe portato Giorgia in un posto con tanti giochi e tanti bambini. Questo posto si chiamava “nido”. «Che bello, papà! Chissà quanti uccellini ci saranno. Papà, ma perché devo mettere il grembiulino per guardare i nidi degli uccellini?». «Perché possono farti la cacca addosso e ti sporcano la maglietta nuova di Puffetta». I resti della maglietta furono gettati di nascosto dalla madre durante un bagnetto improvvisato di Giorgia (l’innocenza dei bambini). 

Giorgia non aveva certo capito che per “nidi” i grandi intendevano “l’asilo”. Primo trauma infantile. Matteo la lasciò con la maestra quella mattina, con il cestino e la merendina. Traditore: era una prigione. La stessa sorte toccò anche a Elena. Invano fu il suo tentativo di fuga anche perché si era nascosta fra i rami di un albero di limone nano ed era facile per le braccia forti di Matteo raccogliere quel limoncello. Fu un supplizio, soprattutto vedere quei bambini, che mentre mangiavano la merendina, si pulivano il naso. BLEEEEE! Aveva il vomito facile, lei. «Gesù bambino mi fa male il cuoricino fammi tornare nel mio lettino». La bambina dava del tu a Nostro Signore, perché una maestra di nome Aurora le aveva spiegato che i bambini sono i prediletti di Gesù, quindi se lo chiamavano direttamente, chiedendo quello che volevano (non sempre però), lui li ascoltava prima dei grandi. Finalmente, quel giorno finì. «Aaaah! Me la pagherai papà». Era vendicativa. Aveva una memoria d’elefante, non dimenticava niente – meno quando conveniva a lei! E infatti il giorno seguente, mentre la maestra disegnava un fiorellino alla lavagna nana con il gessetto blu, sgattaiolò fuori dalla celletta. Gli altri ergastolani si limitarono solo a guardarla e pulirsi il naso. Piano piano uscì da quel lungo corridoio a forma di budello che a sentinella aveva il bidello, che per cambiare l’acqua all’uccello non chiuse il cancello. Riuscì così a varcare il cancello della prigione, ma percorso appena un metro, un flash: limoncello?! Non poteva certo lasciare la sorellina lì. Nuovamente giù lungo il corridoio, che ora sembrava ancor più lungo. Ma che fine aveva fatto il bidello? Boh! Forse aveva perso il suo borsello. Scusate non potete certo pretendere che una bambina di cinque anni faccia la rima con uccello (la voce fuori campo sì però).

Nascondendosi dietro il pilastro, era in attesa di un miracolo che facesse aprire la porta: «Gesù bambino vieni nel mio cuoricino e fai aprire questo portoncino». Come per magia la porta si aprì. «Grazie Gesù» disse. A picciridda non poteva certo sapere che era l’ora delle maestre, cioè quando escono per scambiarsi i quaderni degli scolaretti e copiarsi gli esercizi. Yeah! La porta del paradiso ora era aperta e HOP HOP a piccoli passi, singhiozzando, prese la sorellina. Nessuno le vide, forse perché erano alte come formichine nane o forse perché la bidella stava aiutando il bidello a cercar il suo borsello. Riuscirono a scappare felici come due ovetti di Pasqua con la mega sorpresa dei Puffi e così manu manuzza pigghiaru a via ra stratuzza. Pioveva a dirotto ma a loro non importava. Lungo il corso principale, in pompa magna, le picciridde sembravano due soldatesse e si sa che la vittoria rinsavisce gli animi e la tentazione è sempre dietro l’angolo. Il fruttivendolo che abbanniava, attirò la loro attenzione. Fu come il canto delle sirene di Ulisse ed infatti mano lesta fregò dalla cassetta due grosse castagne (adorava le castagne). «Chisti ni manciamu a casa! Amunì». Ma l’evaso si sa che deve fare i conti con il carceriere ed infatti Matteo, che era stato avvertito, preoccupato a dir poco, riuscì a trovarle al passaggio a livello.

* * * 

BUENOS AIRES 22 poesia di un amore sincero - di Benedetta Tomasello - Edizioni Libreria Croce -

Caro Lettore,

arrivederci al prossimo appuntamento letterario.

 

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